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GIOVANNINO... TANTI BAMBINI COME LUI INCONTRANO CHI LI ACCOGLIE... DALL'ABBANDONO DEI GENITORI ALL'INCONTRO CON L'AMORE DI CHI TI SCEGLIE
Un racconto testimonianza
di Salvatore Mazza - Fonte: Avvenire, 07/11/2019
Il giorno dopo la fuga di notizie dall'ospedale di Torino, oggi è tornato il silenzio su Giovannino, il neonato non riconosciuto dai genitori a causa della grave malattia rara di cui è affetto, la ittiosi Arlecchino. Numerose famiglie si sono offerte di accoglierlo, e così il Cottolengo di Torino. Una generosità che ha colpito Claudio Larocca, presidente della Federazione dei Centri di aiuto alla vita del Piemonte, perché "ci dona speranza e fiducia nell'umanità". «C'è ancora chi si prodiga per accogliere e assistere l'"imperfetto" che per alcuni è solo 'materiale di scarto". E hanno suscitato grande discussione due post su Facebook in cui il ginecologo Silvio Viale, che lavora proprio al Sant'Anna ed è attivista radicale, ha commentato la vicenda, dapprima biasimando la diffusione della notizia dell'abbandono di Giovannino, e poi, tra le altre cose, ribadendo che "ognuno di noi avrebbe fatto come i genitori", e che, in più "chiunque di noi, potendo conoscere la diagnosi durante la gravidanza, abortirebbe". Parole forti, certamente non veritiere, e che aggiungono spietatezza a una vicenda che, da dovunque la si guardi, resta dolorosa. Pubblichiamo qui di seguito una testimonianza-racconto scritta da Salvatore Mazza, una sorta di storia di "buon augurio" dedicata a Giovannino. Ho letto ieri di Giovannino, il piccolo di 4 mesi abbandonato alla nascita dai genitori perché affetto da una malattia rara e incurabile. E mi è tornata alla mente qualcosa accaduto tanti anni fa, e che ha sempre al centro Torino e il Cottolengo. Una storia incredibile, ma verissima, la più bella che mi sia capitato di raccontare in quasi quarant'anni di giornalismo, e che ancora mi buca il cuore ogni volta che ci ripenso. E che vorrei lasciare a Giovannino come buon augurio. Era il 1990, e dopo alcuni giorni di tira e molla, dal Cottolengo ottenni il permesso di visitare il "Padiglione degli Angeli" , la parte della Piccola Casa della Divina Provvidenza che ospitava i bambini nati con handicap e malformazioni gravissime, i "mostri", quelli che i genitori abbandonavano per la vergogna, o per l'impossibilità di prendersene cura, o per la disperazione. Arrivando a Torino ancora non sapevo che cosa avrei scritto. Una suora, di cui non ricordo purtroppo il nome, mi accompagnò al padiglione, dove vidi tanti piccoli e meno piccoli puliti, ordinati, curati e amati. Finito il giro, la suora mi chiese: «Ha tempo per incontrare una persona?». Certo. Mi lasciò in un salottino, dove qualche minuto dopo rientrò accompagnata da una signora di oltre settant'anni, piccolina, minuta, i capelli tutti bianchi, e un gran sorriso. «Ecco, questa è la signora Laura, forse sarebbe interessante per lei ascoltare la sua storia». Una storia iniziata una quindicina di anni prima, esattamente il giorno che la signora Laura era andata in pensione dopo aver lavorato più di quarant'anni alle poste. Né marito né figli, il suo programma era di permettersi, con i risparmi di una vita e la liquidazione, il lusso di qualche viaggio. Il primo fu un pellegrinaggio, in pullman. C'erano anche due suore, con le quali iniziò a parlare del più e del meno. Quando venne fuori che lei, Laura, suonava il pianoforte, le chiesero se qualche giorno le sarebbe andato di suonare «per i nostri bambini». Rispose di sì, ma tutto si sarebbe aspettato tranne che di ritrovarsi, un paio di giorni dopo, tra gli "angeli" del Cottolengo. «Sul momento fu uno choc terribile», mi confessò. Però riuscì a suonare, e suonò per più di un'ora. Prima di andare via - «Torni quando vuole, e grazie», le dissero le suore – passò a salutare i bambini e, in un lettino, ce n'era uno di forse nove anni, cieco e praticamente senza faccia, nato così. Si «fece coraggio» - usò proprio questa espressione – e allungata la mano gli sfiorò i capelli con una carezza. «Chi sei?». «Mi chiamo Laura». «Io sono Mario. Tu sei mia mamma». Non era una domanda, era un'elezione, un'investitura. E in effetti sarebbe tornata, Laura, tra quelle mura. Sempre più spesso, fino a farlo tutti i giorni. Oramai "mamma Laura" per tutti, andava lì ad accudire il Mario, lo aiutava a fare i compiti, le passeggiate la domenica e poi d'estate qualche giorno di vacanza insieme… no, mamma Laura non riuscì mai a fare i viaggi che aveva sognato, i soldi servivano per pagare le complesse e costose operazioni di chirurgia plastica che provavano a restituire fisionomia al volto di Mario, e furono tante. Sempre insieme, Mario e mamma Laura, sempre, anno dopo anno. Anche quando Mario, verso i diciotto anni, volle provare a ritrovare i suoi genitori. Non si sapeva chi fossero, l'unica cosa nota delle sue origini era che era nato in un paese del Veneto. Mamma Laura l'accompagno', ma le ricerche non approdarono a niente. Mario allora lasciò nel libro del vangelo davanti all'altare di una chiesa una lettera con la sua storia, un numero di telefono e una domanda: per caso qualcuno mi sa dire chi sono i miei genitori? Tornarono a Torino, senza molte speranze. Ma dopo qualche mese il telefono di mamma Laura squillo'. Era il parroco della chiesa dove Mario aveva lasciato la sua lettera. Aveva trovato la famiglia di Mario, padre madre e due sorelle, aveva parlato con loro, e anche loro volevano riabbracciarlo. Mamma Laura e Mario tornarono di corsa in Veneto, e fu una festa. Si rividero a Torino, e fissarono un terzo appuntamento che però, all'ultimo momento, saltò. Mamma Laura provò a fissarlo di nuovo, ma il telefono squillava a vuoto. Finalmente, dopo qualche settimana, le rispose la madre: «Ci abbiamo provato, ma… ». Ora doveva dire a Mario che i suoi genitori l'avevano rifiutato un'altra volta. Indugio' qualche giorno, poi, come quando gli aveva dato quella prima carezza, si fece coraggio: «Sai, ho parlato con tua madre…». Mario neanche la lasciò finire, aveva già capito tutto da un pezzo. Disse solo: «Tu sei mia madre». Mario trovò lavoro, si sposò e non si voltò più indietro. Sempre accanto a mamma Laura. Sua madre.
Fonte: Avvenire, 07/11/2019
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COME SI PRESENTA ALL'ATTO PRATICO L'EUTANASIA? COME UNA COSA ESTREMAMENTE RAGIONEVOLE, UNA FORMA D'ATTENZIONE ALL'ALTRO
E se il nostro sistema sanitario invece che inefficiente fosse più umano di quelli dei nostri cugini europei? Noi lo speriamo, Il caso dell'Olanda.
Fonte Tempi, 31/03/2020
Con l'occasione dell'emergenza coronavirus la distanza tra Olanda e Italia non emerge solo nei tavoli dell'Unione Europea dove si discute (litigando) di bilanci e misure anticrisi. Anche in campo medico tra i due paesi sembra aprirsi un abisso. La settimana scorsa lo ha mostrato a tutti Frits Rosendaal, capo del reparto di epidemiologia clinica dell'ospedale universitario di Leida, insignito dall'Olanda con tutti i maggiori riconoscimenti scientifici. Parlando delle differenze tra l'approccio dell'Italia all'emergenza sanitaria e quello del suo paese, il professor Rosendaal ha tenuto a sottolineare non solo che da noi il coronavirus è stato libero di circolare per molto più tempo prima che fossero adottate misure di contenimento, un ritardo che ha «facilitato il contagio». Soprattutto, ha aggiunto Rosendaal, a fare la differenza è la gestione dei posti disponibili nei reparti di terapia intensiva: in Italia, ha osservato il medico, «ricoverano persone che noi in Olanda non ricovereremmo perché troppo anziane. Gli anziani godono di una considerazione molto diversa nella cultura italiana».
PROBLEMI DI BUDGET Non ci vuole molta fantasia per intuire che cosa comporti all'atto pratico questa "diversa considerazione" verso gli anziani. Una differenza che può avere concretissime conseguenze in ambito terapeutico, così come a livello di budget economico. E chissà che non pensasse anche a questo, il ministro delle Finanze olandese, Woepke Hoekstra, quando giovedì al Consiglio europeo ha chiesto l'avvio di una indagine presso la Commissione di Bruxelles per sondare i motivi per cui alcuni paesi dicono di non avere margini di bilancio nonostante la crescita dell'area euro negli ultimi anni. Ovvio che Hoekstra si riferiva proprio all'Italia, alla Spagna e agli altri sette stati europei che invocano i coronabond per far fronte alle spese di emergenza (il premier portoghese Antonio Costa ha definito «ripugnante» la proposta olandese). Ma torniamo all'ambito medico. Un altro che sottolinea le differenze di approccio fra Nord e Sud dell'Europa è Hans van der Spoel, vicedirettore della terapia intensiva all'ospedale universitario di Amsterdam. Anche secondo Van der Spoel, interpellato dal quotidiano Volkskrant, ci sono «grandi differenze tra noi e paesi come la Francia e l'Italia». Nei Paesi Bassi, spiega il medico, «di solito si riflette molto di più se sia un beneficio per il paziente un così lungo apporto di ventilazione». Al contrario, «più vai a Sud, più diventa poco negoziabile interrompere questo trattamento che allunga inutilmente la vita. È così già in Francia», figurarsi in Italia. Nel Belpaese infatti «l'età media dei pazienti in terapia intensiva è molto più alta che qui». E adesso sappiamo che non è un caso.
DOVE SI MUORE DI COVID-19 Per carità, precisa Van der Spoel, non è mica vietato neanche in Olanda ricoverare un malato over 70. Semplicemente, «valutiamo quanto sia utile ventilare qualcuno per settimane. Il paziente ha malattie sottostanti? Quanto è vulnerabile? Quanto è fragile? Per quanto tempo vivrà?». Sono domande che trovano un senso nella considerazione che il coronavirus «ha effetti violenti anche nelle persone sane, quindi è ancora più difficile per i pazienti vulnerabili». Alla luce di tutto ciò, comincia a chiarirsi il motivo per cui, scrive sempre il Volkskrant, solo una piccola parte dei contagiati da coronavirus deceduti in Olanda siano morti in terapia intensiva (appena 27 su 179 al giorno in cui è uscito l'articolo in questione, 22 marzo). Tutti gli altri sono morti in casa di cura o in altri reparti ospedalieri. Mark Martens, geriatra e responsabile del centro di assistenza per anziani Zuyderland a Limburg, dice che degli 8 ospiti uccisi dal Covid-19, solo uno è defunto in ospedale, gli altri sono rimasti dov'erano.
QUESTIONE DI «QUALITÀ DELLA VITA» «Mandiamo le persone in ospedale solo se prevediamo che dispongano di capacità sufficienti per recuperare», spiega Martens. Gli fa eco un'altra geriatra, Maggy van den Brand, della casa di cura Archipel di Eindhoven: «Stimo che in un caso di emergenza come il coronavirus invieremo in ospedale tra il 10 e il 20 per cento dei nostri pazienti». Per gli altri niente terapia intensiva. Tutto e sempre, naturalmente, in accordo con il paziente o con la famiglia, precisa il quotidiano. E soprattutto seguendo la stella della «qualità della vita». Non sarà sfuggita fin qui l'insistenza sulla potenziale «vulnerabilità» degli anziani interessati. È un tema che ritorna martellante anche nelle raccomandazioni pubblicate in risposta all'emergenza coronavirus in Olanda da quattro luminari della geriatria, Bianca Buurman, Olde Rikkert, Huub Maas, Simon Mooijaart. I quattro consigliano in continuazione agli operatori sanitari – in vista del possibile contagio – di informarsi appunto in merito alla «vulnerabilità» dei proprio pazienti, poiché «se una persona anziana è molto vulnerabile, un ricovero in terapia intensiva spesso non è più un'opzione realistica». Meglio dunque «sondare le preferenze del paziente» con domande tipo: «Come valuta la propria salute, dove vuole morire?».
UNA GRADITA ATTENZIONE È chiaro che certe domande sembrano fatte apposta per incoraggiare il maggior numero di rinunce preventive alle cure. Infatti «queste discussioni – precisano gli specialisti – vanno preferibilmente condotte prima che si verifichi un grave deterioramento delle condizioni del paziente e le scelte devono essere prese in base a vincoli temporali». Nota bene per i casi di cui sopra: «Nelle case di cura, quasi tutti i residenti possono essere considerati (seriamente) vulnerabili». È stato sempre il Volkskrant, venerdì scorso, a testare "sul campo" le raccomandazioni dei quattro geriatri. All'Aia, nel quartiere Houtwijk, opera Marije Dieudonné, medico specializzato in assistenza agli anziani, la quale dice di aver capito quanto sia «importante che i desideri dei pazienti siano scritti, in modo che, anche qualora si ammalassero di sera o nel fine settimana, tutti sappiano cosa pensano della rianimazione e della ventilazione. E se vogliono davvero andare in ospedale». E non è che bisogna complicare l'interrogatorio dei poveri anziani con «domande difficili» come «cosa ne pensi della terapia intensiva o della ventilazione?». La chiacchierata, dice la dottoressa Dieudonné, «riguarda molto di più la domanda: quali sono i tuoi desideri per l'ultimo tratto?». «Alle persone anziane piace essere chiamate per questo, apprezzano l'attenzione».
Fonte: Tempi, 31/03/2020
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TAFIDA MIGLIORA, E IL PENSIERO VA A CHARLIE E ALFIE. MA I CASI NON SONO UGUALI: E' STATA RISPETTATA LA FEDE, MA MUSULMANA
Grazie all'ospedale italiano Gaslini, Tafida, ormai data per incurabile dai medici inglesi,sta sperimentando miglioramenti significativi.
di Emanuele Boffi - Fonte: Tempi, 10/01/2020
Il caso di Tafida, la bambina di 5 anni che secondo i medici inglesi del Royal Hospital di Londra sarebbe dovuta morire «nel suo miglior interesse» e che, invece, curata al Gaslini di Genova, ha mostrato segni di miglioramento, è macroscopico per la sua rilevanza e implicazioni. La storia la conoscete e ieri su tutti i quotidiani italiani se ne dava conto, mischiando un (comprensibile) stato di giubilo per una vita che si riaccende e un (legittimo) orgoglio per l'ottimo lavoro svolto dai dottori dell'ospedale italiano. Poi, ovvio, non finisce qui: per la piccola il percorso di riabilitazione sarà lungo e faticoso, ma da "è meglio se muore" a "la prospettiva è mandarla a casa" c'è un bel salto. Esistono due elementi della vicenda che sono rimasti un po' nell'ombra e che è bene evidenziare. Il primo riguarda alcune espressioni usate dai medici italiani durante la conferenza stampa; il secondo è la fede musulmana dei genitori di Tafida, che si sono battuti come leoni per farle avere assistenza. Ha detto Paolo Petralia, direttore generale dell'Istituto, citando una frase del papa, «curare è incontrare le persone». «Siamo felici di aver accolto Tafida all'Istituto Gaslini, esaudendo il desiderio dei suoi genitori, che hanno chiesto tempo e tutta la qualità di vita migliore possibile per la loro piccola, poiché non sempre, purtroppo, è possibile guarire, ma è sempre doveroso prendersi cura e offrire spazio di accudimento ed accoglienza ad un bambino e ai suoi genitori. Questo tempo, che viene offerto a Tafida e ai suoi famigliari, è una condizione di dignità e qualità di vita, che da sempre al Gaslini viene garantito ai bambini di tutte le condizioni». Andrea Moscatelli, direttore del Centro di Rianimazione Neonatale e Pediatrica, ha aggiunto: «Il nostro compito è stato da subito quello di supportare le funzioni vitali di Tafida, con l'obiettivo di renderne possibile l'accudimento a casa da parte della famiglia. Le cure intensive devono sempre essere proporzionate alla condizione clinica del paziente, in un delicato equilibrio nel quale è fondamentale garantire la dignità di vita dei bambini e la condivisione dei percorsi di cura con le famiglie» Sia nelle parole di Petralia sia in quelle di Moscatelli si rintracciano alcuni concetti cari a questo giornale: non esiste un diritto alla guarigione, ma esiste un dovere di cura; le cure devono essere proporzionate alla condizione del paziente; tra medici, pazienti e familiari si deve instaurare un'alleanza perché tutti stanno percorrendo il medesimo cammino. Sono tre punti fondamentali che riguardano il caso di Tafida ma, più in generale, qualsiasi altro: il riferimento immediato è ad Alfie Evans e Charlie Gard, ma il discorso potrebbe essere esteso anche ai casi che hanno acceso il dibattito sull'eutanasia e il suicidio assistito. Si può curare anche quando non si può guarire, abbiamo sempre scritto. E questo vale sia nel caso (positivo) di Tafida, ma anche quando, invece, le cose si mettono male o si complicano o si cronicizzano. Seconda osservazione, più delicata perché potrebbe prestarsi a fraintendimenti, ma altrettanto importante. La storia di Tafida ha potuto avere una svolta grazie alla grande mobilitazione della comunità musulmana residente in Inghilterra. Quando i medici inglesi hanno espresso il loro parere mortifero, sia i genitori della piccola sia i fedeli islamici a loro più prossimi si sono ribellati. La medesima "ribellione" si era verificata nei casi sopra citati, ma, questa volta, l'atteggiamento dei giudici inglesi e dei mass media in generale è stato molto diverso. Nessuno si è sognato di bollare i due genitori come dei "fanatici pro life" o dei masochisti che volevano tenere in vita a tutti i costi la figlia. La comunità musulmana inglese, poi, a differenza ad esempio con quanto accaduto nel mondo cattolico sui casi Evans e Gard, è rimasta compatta e solidale con i genitori. Su richiesta della madre, si espresse perfino il Consiglio islamico europeo che con una fatwa ricordò che, per i musulmani come la famiglia Raqeeb, l'interruzione dei trattamenti vitali è «inammissibile» oltre che un «grave peccato». Senza togliere nulla all'atteggiamento eroico dei genitori di Tafida va freddamente rilevato come tra casi non sovrapponibili ma simili il ruolo giocato da giudici e grande informazione sia stato molto diverso.
Fonte: Tempi, 10/01/2020
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A CHE PUNTO SIAMO ARRIVATI SE LA PRIMA PREOCCUPAZIONE IN PANDEMIA NON E' IL CIBO, NON SONO LE CURE, NON IL LAVORO, MA ASSICURARE LA MORTE?
Dall'America all'Europa, le lobby mortifere non dormono mai
di Leone Grotti - Fonte: Tempi, 28/03/2020
Di che cosa hanno bisogno in questi mesi gli americani chiusi in casa in quarantena? Di pillole abortive e cocktail eutanasici. Il board editoriale del New York Times si lancia in una crociata di morte senza mezzi termini con un articolo dal titolo eloquente: «Durante la pandemia rendere l'aborto più accessibile, non meno». Allo stesso modo, le lobby favorevoli all'eutanasia propongono negli Stati Uniti di approvare la "buona morte" con un rapido consulto su Skype.
«L'ABORTO È UN SERVIZIO ESSENZIALE» Per quanto riguarda la bibbia del progressismo, dopo aver sferzato tutti quegli Stati che cercano da anni di approvare leggi per limitare l'aborto e che davanti all'emergenza coronavirus hanno proposto di chiudere le cliniche abortive perché il servizio «non è essenziale», risponde: «L'aborto è una componente essenziale dell'assistenza sanitaria». E durante la quarantena deve anche essere praticabile a casa con la pillola: «Gli esperti dicono che la maggior parte delle pazienti che cercano il controllo delle nascite e l'aborto attraverso i farmaci può farlo in tutta sicurezza senza recarsi in una clinica. Ma ci sono degli ostacoli politici e regolamentari che vanno eliminati. Poiché la gente è chiusa in casa, potenzialmente senza avere accessi a mezzi di controllo delle nascite, nelle prossime settimane potrebbero verificarsi molte gravidanze indesiderate. Tra coloro che vorrebbero un aborto, in tanti potrebbero non essere in grado di usufruirne a causa delle restrizioni agli spostamenti o perché devono restare a casa a prendersi cura dei bambini o di altri familiari».
«PILLOLE ABORTIVE VIA POSTA» E se le donne non possono uscire di casa per andare nelle cliniche abortive, allora l'aborto deve entrare nelle case delle donne. Il New York Times propone dunque: «l'invio di pillole abortive via posta» a tutte le donne che le richiedano dopo un rapido consulto con il proprio medico attraverso una videochiamata. Perché questo sia possibile, però, 18 Stati devono abolire la normativa che vieta l'approvazione dell'aborto con la telemedicina e la Fda deve sospendere il regolamento secondo il quale il mifepristone può essere assunto soltanto sotto controllo medico in una struttura di cura. Inoltre, continua il quotidiano, nel caso che le donne si autoinducano l'aborto in casa con mezzi poco ortodossi, non dovrebbero essere investigate né criminalizzate. Per evitare queste conseguenze, ogni Stato dovrebbe rendere disponibile a domicilio la contraccezione, mentre il governo federale dovrebbe pagare sia le pillole abortive che i contraccettivi. Solo così le donne, conclude il Nyt, potranno «davvero avere il controllo delle proprie scelte riproduttive» e passare serenamente a casa il periodo di quarantena.
AUTORIZZARE L'EUTANASIA CON LA TELEMEDICINA Ma in questo momento di emergenza non bisogna solo pensare alle donne che possono abortire, è fondamentale prestare attenzione anche a tutti coloro che vogliono uccidersi con l'eutanasia e non possono farsi visitare da un medico a causa della quarantena. Kim Callinan, la presidente della lobby americana pro eutanasia Compassione e scelte, ha scritto così a tutti i membri del Congresso: «Gli americani gravemente malati contano su di noi per adattare a questa crisi i regolamenti affinché possano accedere alle opzioni di fine vita attraverso la telemedicina». La stessa richiesta è stata fatta dalla nuova associazione Clinici americani per l'aiuto medicale a morire: «Alla luce della crisi da coronavirus un comitato si è riunito per stabilire le raccomandazioni pertinenti all'uso della telemedicina per valutare le richieste dei pazienti riguardo a eutanasia e suicidio assistito». Per autorizzare la morte di una persona, secondo l'associazione, dovrebbe bastare una telefonata su Skype.
L'ILLUSIONE DELL'AUTONOMIA Quella di New York Times e lobby pro eutanasia è una strana reazione alla pandemia: tutto nella società deve fermarsi davanti alla morte che potrebbe portare con sé il virus tranne quella che possiamo procurare noi stessi. Anche la più piccola delle morti è inaccettabile agli occhi di giornali e governanti tranne quella che ci si sceglie volontariamente. Tutto può essere paralizzato per qualche mese – chiese, industrie, riunioni, funerali – tranne il diritto a uccidere e uccidersi. L'unico modo per esorcizzare il tabù della morte sembra essere quello di sostituirsi al virus, per fare il lavoro sporco al posto suo, nell'illusione di essere ancora "autonomi".
Fonte: Tempi, 28/03/2020
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