Amici del Timone n�22 del 17 luglio 2013
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PRIMA DI PARLARE DI FECONDAZIONE IN VITRO, CONTROLLATE L’OROLOGIO BIOLOGICO
La natura ha i suoi tempi, inutile illudersi
di Carlo Bellieni - Fonte: Il Foglio
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L'OBIEZIONE CONVINCE I MEDICI E GLI ABORTISTI SI STRACCIANO LE VESTI: ''MA LO SAPETE CHE COS'E' UN ABORTO?''
Un medico sperimenta la contraddizione di eseguire un aborto e vedere, toccare, assorbire ciò che si riferisce non solo all’adulto ma anche al bambino: pensate che per noi medici sia indolore?
di Carlo Bellieni - Fonte: Avvenire
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GLI OBIETTORI DAVANTI ALL'INQUISIZIONE ABORTISTA
I diritti dei professionisti dipinti come un privilegio per nascondere la verità
di Tommaso Scandroglio - Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana
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I GIURISTI PER LA VITA CONTRO LA CGIL
Saranno loro a rappresentare le ragioni dei medici obiettori di coscienza alla legge 194 nel procedimento attivato dalla CGIL davanti al Consiglio d’Europa
di Gianfranco Amato - Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana
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I VESCOVI IRLANDESI SI MOBILITANO CONTRO L'ABORTO
Non importa quale legge è stata varata in un Paese: l’aborto è e sarà sempre un’azione gravemente sbagliata
di Tommaso Scandroglio - Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana
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IL MATRIMONIO ''DEVE'' DISCRIMINARE GLI OMOSESSUALI
Il testo del discorso pronunciato alla House of Lords dal noto marxista, libertario e non credente
di Brendan O’Neill - Fonte: UCCR online
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LA GERMANIA RICONOSCE I BAMBINI NON NATI: I GENITORI POTRANNO SCEGLIERE UN NOME E DARE LORO SEPOLTURA
Stavolta l'Italia è arrivata prima, la nostra legislazione già prevede questa possibilità
di Tommaso Scandroglio - Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana
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LA LEGGE 194 SI FONDA SU BASI ANTI-SCIENTIFICHE
Si pensa che il feto non abbia una vita propria fino alle 24 settimane, ma dal punto di vista scientifico questa idea è falsa (VIDEO: Diario di un Bambino mai nato)
di Roberto Algranato - Fonte: ProLife News
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HO ESEGUITO 75.000 ABORTI E MI SONO BATTUTO PER LA SUA LEGALIZZAZIONE NEGLI STATI UNITI
Sebbene fossi ateo, compresi l'abominio che avevo compiuto, poi la conversione al cattolicesimo attraverso l'incontro con l'Opus Dei (VIDEO SHOCK: come si pratica un aborto)
di Bernard Nathanson - Fonte: Il Blog di Costanza Miriano
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FERMIAMO LA LEGGE CONTRO L'OMOFOBIA
In grave pericolo la libertà di pensiero in Italia
di Gianfranco Amato - Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana
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PRIMA DI PARLARE DI FECONDAZIONE IN VITRO, CONTROLLATE L’OROLOGIO BIOLOGICO
La natura ha i suoi tempi, inutile illudersi
di Carlo Bellieni - Fonte: Il Foglio
Qualcosa non torna nel tifo dei mass media per ogni novità legislativa che va nel senso di ampliare l’accesso alla fecondazione in vitro. Lo abbiamo visto negli ultimi giorni, tanto che sembra che ogni passo per abbattere i limiti della legge 40 sia una vittoria di chi combatte per avere un figlio. Forse. Ma forse si dimentica che adire alla Fiv risolve solo la punta dell’iceberg: la sterilità si vince con la prevenzione. Capito che la prevenzione è il 90 per cento delle cose da fare (e che non si fanno), e che la Fiv è forse una cura ma non è prevenzione, si intuisce che il suddetto tifo finisce solo col distrarre dal nucleo del problema. La prima prevenzione è fare i figli nell’epoca della vita più propizia, ma la società sposta quest’evento a un’epoca “impossibile”, con la conseguenza che i figli non arrivano più. Problema risolto con la Fiv? Mica tanto. Cade a proposito l’ultimo numero della rivista Family Physician, organo del Royal Australian College of General Practitioners. Spiega che le donne ignorano i rischi di rimandare la gravidanza nel tempo e hanno un eccessivo ottimismo nell’efficacia della fecondazione in vitro. Aspettare troppo è in sé un rischio per restare sterili. I follicoli ovarici si alterano rapidamente dopo i 38 anni, e le possibilità di impianto dell’embrione sono comunque basse: il 35-40 per cento se la donna ha meno di 35 anni e il 15 per cento al di sopra di quella età. Anche il canadese Journal of Obstetrics and Gynecology ha formulato delle raccomandazioni e la rivista Human Reproduction, in uno studio su un gruppo di studenti americani e israeliani, ha mostrato il basso livello di informazione sui limiti dell’età feconda. Oggi l’età media al momento del primo concepimento è 30 anni, ma anche con la Fiv le possibilità di concepire calano dell’11 per cento per ogni anno che passa. Si dovrebbe fare una seria prevenzione della sterilità. Si potrebbe ricorrere a politiche sociali per le famiglie giovani, o a politiche ambientali contro l’eccesso di sostanze inquinanti che generano sterilità; ma non se ne fa nulla. Forse è impopolare perché fa intravedere alternative alla gravidanza medicalizzata, ormai divenuta un mito. O forse costa troppo in termini di riforme e di interventi ecologici. Così si lascia un’unica opzione: far figli a trent’anni o affidarsi alla medicina, senza domandarsi perché la sterilità è in crescita e quanti pesticidi, solventi, plastiche, smog che assorbiamo siano delle granate lanciate contro la nostra fertilità cui nessuno mette un serio argine. Qualcuno obietterà che è antidemocratico invogliare a far figli da giovani, perché magari priva le donne di carriera e istruzione, ma obbligo dei governi è proprio quello di armonizzare istruzione e carriera con i tempi biologici. Il pensiero imperante del figlio “quando lo decido io” sembra essere un indice di grande libertà di scelta, ma cozza con l’orologio biologico delle ovaie. Aiutate le donne a diventare mamme, date loro supporti economici, cancellate le penalizzazioni alla carriera e poi riparliamo di Fiv. E’ paradossale aprire alla fecondazione in vitro e non far nulla in quanto a prevenzione della sterilità. E’ uno sbilanciamento che non sconfigge la sterilità dilagante, ma che porta la gente a protestare richiedendo la soluzione solo della conseguenza e non della causa, cioè a sbagliare bersaglio. Facciamo una seria prevenzione: la salute riproduttiva se ne gioverà, e le tecniche medicalmente assistite ne usciranno ridimensionate.
Fonte: Il Foglio
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L'OBIEZIONE CONVINCE I MEDICI E GLI ABORTISTI SI STRACCIANO LE VESTI: ''MA LO SAPETE CHE COS'E' UN ABORTO?''
Un medico sperimenta la contraddizione di eseguire un aborto e vedere, toccare, assorbire ciò che si riferisce non solo all’adulto ma anche al bambino: pensate che per noi medici sia indolore?
di Carlo Bellieni - Fonte: Avvenire
Abbiamo di recente letto su più testate nazionali inviti ad abolire l’obiezione di coscienza dei medici in caso di aborto. In Italia il 71% dei ginecologi obiettano: ma molti opinionisti si stracciano le vesti perché non si troverebbero medici che pratichino aborti, stupendosi poi di numeri degli obiettori così elevati. Come se fosse un caso tutto italiano, o legato a una questione di fede. È facile farlo sembrare un problema provinciale o di arretratezza, quando invece è un dato globale, che nasce da una domanda: ‘ma lo sapete cos’è un aborto’? Scarseggiano i medici per fare gli aborti e non è un’esclusiva italiana. Il calo viene descritto in Canada, in Francia, dove sono diminuiti anche i centri che praticano aborti, e in Inghilterra, dove Sophie Strickland del King George Hospital riporta questo trend tra i medici di pari passo con un incremento dell’obiezione di coscienza tra gli studenti di medicina. Questi ultimi secondo uno studio dell’Università di Birminghan sono a favore della vita per il 33% con in più un 7% di indecisi. Negli Stati Uniti un recente studio pubblicato sulla rivista Obstetrics and Gynecology ha mostrato un crollo del numero di ginecologi disposti a praticare un aborto: dal 22% nel 2008 al 14% nel 2011. Sarà per le contraddizioni che un aborto solleva in un medico? Non si tratta solo di domande di ordine morale o religioso. Helen Dolk, per conto di Eurocat, centro di documentazione sulle anomalie congenite affiliato all’Onu, lamenta sulla rivista scientifica Lancet la facilità con cui ancora si tramanda che l’aborto è una forma di «prevenzione primaria», e spiega poi che la prevenzione delle malattie è tutt’altra cosa. Certo, si può rispondere che l’aborto preverrebbe il disagio materno derivante dalla nascita di un figlio non voluto. Ma ne siamo certi? Studi che confrontano le conseguenze psicologiche sulla donna di un aborto e della nascita di un figlio non programmato scardinano questo dogma. Un medico sperimenta la contraddizione di eseguire un aborto e vedere, toccare, assorbire ciò che si riferisce non solo all’adulto ma anche al bambino: pensate che per noi medici sia indolore? Una contraddizione è ancora più lampante: per la giurisprudenza italiana l’aborto – dice la legge – si fa per salvaguardare la salute materna. La cura della salute di solito passa per un giudizio medico, in particolare quando si tratta di chirurgia o di farmaci. Ma nell’aborto – caso unico nella medicina – quasi sempre la paziente si autodiagnostica il grave rischio per la salute comportato dalla nascita del figlio, e su quella base si auto-prescrive l’interruzione di gravidanza come ‘terapia’. Si capisce come il medico possa sentirsi estraniato dalla sua funzione all’interno di questo processo dove, più che criteri oggettivi medici – cui tiene e che è stato istruito a seguire – valgono piuttosto criteri molto soggettivi. Per più di un medico pesa un’ulteriore contraddizione, quella di percepire attorno a sé la strana e inarrestabile tendenza della società a non contemplare più la nascita di figli ‘diversi’. È un controsenso evidenziato da Didier Sicard, presidente del Comitato di bioetica francese: «È successo come se a un certo momento la scienza avesse ceduto alla società il diritto di stabilire che la venuta al mondo di alcuni bambini fosse divenuta collettivamente non desiderata e non desiderabile». obiezione di coscienza non è solo etica o religiosa ma anche frutto delle contraddizioni che l’aborto genera nella coscienza. Ciò risulta sempre più evidente verificando quanto accade tra i medici in Paesi che non hanno più un esplicito radicamento nella fede cattolica. L’obiezione di coscienza risulta così anzitutto un diritto civile, cui giustamente nessuno si può seriamente opporre quando, per esempio, si parla di servizio militare o di partecipazione ad una guerra. Pare invece che questa chiarezza venga meno quando l’esercizio di un diritto indiscutibile come l’obiezione intacca un dogma – il libero aborto – della società post-moderna: società che finisce per scaricare il peso e le contraddizioni dalle spalle del medico a quelle della donna con l’aborto farmacologico, e che continua a offrire davvero poco alle tante mamme in difficoltà. Non ci sembra un grande progresso.
Fonte: Avvenire
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GLI OBIETTORI DAVANTI ALL'INQUISIZIONE ABORTISTA
I diritti dei professionisti dipinti come un privilegio per nascondere la verità
di Tommaso Scandroglio - Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana
Gli attacchi all’obiezione di coscienza dei medici che si rifiutano di praticare aborti ormai paiono stampati con il ciclostile, tanto si assomigliano gli uni agli altri. Uno degli ultimi è comparso sul sito dell’Unità martedì scorso a firma della professoressa Marilisa D’Amico, ordinario di diritto costituzionale all’università statale di Milano e Presidente della Commissione degli affari istituzionali del comune di Milano, nonché iscritta nelle liste del PD. La D’Amico è una dei firmatari del reclamo che la Cgil ha presentato al Comitato Europeo dei Diritti Sociali del Consiglio d’Europa contro l’obiezione di coscienza presente nella legge 194, legge che disciplina l’aborto procurato nel nostro Paese. L’articolo dal titolo “Interruzione della gravidanza e obiezione di coscienza: quale soluzione?” è ricco di considerazioni articolate a livello quasi apodittico, considerazioni a cui si potrebbe ribattere in modo sintetico con la seguente domanda retorica: “Ma dove sta scritto?”. Nell’abbrivio del pezzo la D’Amico afferma che l’aborto è sottoposto “a certe condizioni”, ma dopo un riga conclude che "il diritto alla vita del nascituro […] naturalmente dipende dalla scelta libera della donna circa il proprio futuro". Quindi l'unica condizione per accedere all'aborto è la seguente: si pratica l’aborto solo se lo decide la donna e non serve nient’altro. Ed infatti l’autrice dell’articolo ha proprio ragione: l’art. 4 della legge 194 ci dice che nei primi 90 giorni l'aborto è praticabile sempre e comunque, basta che la madre lo voglia. Dopo i 90 giorni compare qualche lievissima restrizione. Dunque queste “condizioni” limitative alle pratiche abortive non esistono, non stanno scritte da nessuna parte. Poi l’attenzione della prof.ssa D’Amico si sposta sull’obiezione di coscienza che, secondo il parere di questo docente universitario, è anch’essa esercitabile a patto di rispettare “certe condizioni”. Ma nella 194 dove sta scritto che il medico può diventare obiettore solo se si inchina ad alcune condizioni? In realtà all’art. 9 a questo proposito c’è solo una previsione meramente burocratica la quale indica che il medico dichiari per iscritto di volersi avvalere dell’obiezione di coscienza. Poi arriviamo alla parte più interessante dell’articolo. Gli obiettori sono troppi: “circa il 90% in tutto il Paese” secondo l’autrice. Chissà dove ha tirato fuori questo dato dal momento che secondo l’ultimo report del Ministero della Salute gli obiettori sono il 65% al Nord, il 69% al centro, il 77% al Sud e il 71% nelle isole. La media è 70,5%. Comunque sia il numero è eccessivo e dunque ecco arrivare la soluzione: “un esame serio delle motivazioni individuali”. Ricordiamo alla docente meneghina che l’obiezione di coscienza per legge non può e non deve essere sottoposta ad esame alcuno. Questo accade per l'aborto (art. 9), per la sperimentazione sugli animali (art. 2 comma 1 della l. 413/93) e per la fecondazione artificiale (art. 16 della l. 40/2004). Le intenzioni per il nostro ordinamento giuridico hanno un peso solo se recano danno e solo se si appalesano in atti esterni. Lo Stato che vaglia la coscienza della persona per capire se è buona quando compie un atto buono è lo stato totalitario di staliniana memoria, che vede nemici del popolo ovunque. Ovviamente il "buona" qui significa "allineato ai dogmi ideologici". Come annota il magistrato Giacomo Rocchi su Notizie Pro Life, viene da chiedersi in merito ai possibili criteri contenuti in questo esame: “Sarà ammesso all'obiezione di coscienza il medico che si limita a recitare il giuramento di Ippocrate? Si verificherà la situazione familiare del soggetto, la sua fede religiosa (se è un ateo potrà fare obiezione di coscienza?), il suo impegno politico?”. E dunque: dove sta scritto nelle nostre leggi che l’obiettore deve essere vagliato dal tribunale dell’inquisizione abortista? La D’Amico poi fiuta il pericolo soprattutto nelle farmacie, infatti occorre “che l’obiezione sia limitata all’intervento strettamente abortivo e non alle attività collaterali, che per alcuni arrivano fino al farmacista che nega ‘la pillola del giorno dopo’, pure dietro prescrizione”. Posto che secondo l’art. 9 l’obiezione interessa anche coloro che esercitano attività ausiliarie – “collaterali” per usare un termine della D’Amico – posto che la somministrazione di un preparato con effetti possibilmente abortivi come quello della pillola del giorno dopo non dovrebbe essere somministrato in farmacia dato che per legge tutto l’iter abortivo deve avvenire nelle strutture autorizzate, viene da chiedersi se davvero il farmacista eserciti un’attività ausiliaria/collaterale quando fornisce alla richiedente la pillola del giorno dopo oppure sia il primo attore nel provocare un aborto. Essendo questa pillola un preparato chimico che direttamente può provocare l'aborto, la sua somministrazione non è un'attività collaterale, ma configura una modalità principale per provocare l'aborto, semmai concorrente con la prescrizione fatta dal medico. L’avvocato D’Amico poi chiude alludendo al fatto che l’obiezione di coscienza avvantaggia i "comodi di qualcuno". Ma da quando il rifiuto da parte di un professionista di compiere una mansione è una marcia in più per fare carriera e dunque una strada furba e di comodo? Non è forse vero proprio l’opposto? Insomma, anche in questo caso, chi lo dice che le cose stiano davvero così?
Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana
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I GIURISTI PER LA VITA CONTRO LA CGIL
Saranno loro a rappresentare le ragioni dei medici obiettori di coscienza alla legge 194 nel procedimento attivato dalla CGIL davanti al Consiglio d’Europa
di Gianfranco Amato - Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana
Saranno i Giuristi per la Vita a rappresentare le ragioni dei medici obiettori di coscienza alla legge 194 nel procedimento attivato dalla CGIL davanti al Consiglio d’Europa. La comunicazione ufficiale, datata 19 giugno e firmata da Régis Brillat, è arrivata ieri, insieme all’invito di presentare osservazioni entro il termine massimo concesso, vale a dire il 3 settembre 2013. La CGIL aveva infatti presentato un reclamo al Comitato Europeo dei Diritti Sociali presso il Consiglio d’Europa (complaint n.91/2013), nel quale sostiene vengano violate alcune disposizioni della Carta Sociale Europea, in ragione dell’elevato numero di medici obiettori di coscienza che si avvalgono in Italia del diritto loro riconosciuto dall’art.9 della Legge 194/78. In particolare, secondo la CGIL, sarebbero violati: a) l’art. 11 della Carta Sociale Europea, in relazione ai diritti della donna, a causa delle difficoltà applicative della Legge 194/78 che compromettono il diritto di accesso ai trattamenti interruttivi della gravidanza; b) l’art.1, 2, 3 e 26 della Carta Sociale Europea in relazione ai diritti del personale medico ed esercente le attività ausiliarie non obiettore di coscienza, a causa delle difficoltà applicative della Legge 194/78 che compromettono la posizione giuridica dei medici non obiettori sui quali grava il carico complessivo di lavoro relativo ai trattamenti di interruzione della gravidanza. Di fronte a questa iniziativa i Giuristi per la Vita hanno deciso di reagire mettendosi a disposizione di tutti coloro che avessero un interesse ad opporsi. Hanno così aderito l’A.I.G.O.C. Associazione Italiana Ginecologi Ostetrici Cattolici, l’A.M.C.I. Associazione Medici Cattolici Italiani, il Forum delle associazioni familiari, la C.F.C. Confederazione Italiana dei Consultori familiari di Ispirazione Cristiana e il Centro Studi per la tutela della salute della madre e del concepito dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. E ora, il Presidente del Comitato dei Diritti sociali, lo spagnolo Luis Jimena Quesada, ha direttamente invitato il team di legali pro-life a presentare le loro osservazioni. Nella memoria che gli stessi Giuristi per la Vita presenteranno a Strasburgo appare evidente l’infondatezza delle ragioni addotte dalla CGIL a sostegno del proprio reclamo, smentite documentalmente dagli stessi dati ufficiali delle Relazioni del Ministero della Salute. Sono proprio questi documenti pubblici a dimostrare alcuni punti inequivocabili. Primo, l’interruzione volontaria della gravidanza resta uno dei servizi sanitari erogati ad un livello di efficienza molto alto, che non è peggiorato nel corso degli anni, e che difficilmente si riscontra per altre tipologie di intervento. Secondo, non esiste un solo caso in cui, ad una donna, sia stata negata la possibilità di abortire legalmente. Terzo, nel 95% dei casi l’aborto viene eseguito entro tre settimane dal momento in cui è possibile, e ciò benché oltre il 90% degli interventi non sia urgente. Quarto, in nove interventi su dieci si ricorre al day hospital. Quinto, il numero delle complicanze è minimo e stabile nel tempo, mentre il numero degli aborti clandestini è ai livelli minimi. Sesto, il crescente numero delle donne straniere che abortiscono legalmente dimostra la facilità dell’accesso al servizio che, si deve ricordare, è gratuito. Il reclamo della CGIL, poi, nel denunciare l’esistenza di disservizi in alcuni ospedali, sembra non considerare due aspetti che risultano evidenti dalle Relazioni ministeriali, ovvero il fatto che non venga mai impedito alle donne di abortire, quando si programma un intervento, ed il fatto che la mobilità in altre province o regioni d’Italia da parte delle donne che abortiscono sia sempre stata molto alta. Il problema è che la stessa legge 194, imponendo a tutti gli ospedali di erogare il servizio di interruzione della gravidanza, finisce per impedire, di fatto, una efficiente programmazione sanitaria e la creazione di reparti di dimensioni adeguate, con personale sufficiente e strumentazioni idonee. Una simile scelta, peraltro, è prevista solo per questa particolare “specialità sanitaria”, e per nessun altro intervento medico. Del tutto inconsistenti sono, poi, i rilievi del reclamo della CGIL relativi alla asserita lesione del diritto dei medici non obiettori ad esercitare la propria professione in condizioni eque e dignitose. Ha davvero del paradossale il fatto che un sindacato possa decidere di lottare contro un diritto riconosciuto per legge ai lavoratori (medici obiettori) e proporre di discriminarli, appoggiando la soluzione dei bandi di assunzione riservati a medici non obiettori, già bocciata dal Giudice amministrativo. La CGIL sembra in realtà aver fatto una scelta: non difendere i lavoratori, ma colpirli in sede europea, per mero furore ideologico, apparendo del tutto pretestuoso l’asserito interesse alla salute delle donne o alle condizioni dei medici obiettori. Appare semplicemente intollerabile che la grande maggioranza dei medici, con la loro obiezione, dia una silenziosa testimonianza del fatto che l'aborto uccida un bambino e che compito del medico sia quello di curare, e non di causare la morte. Questo concetto, peraltro, era assai evidente nell’antico giuramento di Ippocrate, quello che i medici pronunciavano invocando Apollo, Asclepio, Igea, Panacea e tutti gli dei e le dee. In quel testo, infatti, coloro che si votavano alla professione di Esculapio giuravano di non somministrare mai un farmaco mortale (φάρμακον θανάσιμον), neppure se richiesto (οὐδενὶ αἰτηθεὶς), e soprattutto si impegnavano solennemente a non dare a nessuna donna un medicinale abortivo (οὐδὲ γυναικὶ πεσσὸν φθόριον δώσω). Era il IV secolo avanti Cristo. Da allora di secoli ne sono trascorsi ventiquattro, duemilaquattrocento anni, ma l’uomo contemporaneo, in quel campo, non pare aver dimostrando di essere più saggio. Anzi.
Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana
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I VESCOVI IRLANDESI SI MOBILITANO CONTRO L'ABORTO
Non importa quale legge è stata varata in un Paese: l’aborto è e sarà sempre un’azione gravemente sbagliata
di Tommaso Scandroglio - Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana
Mercoledì scorso, 26 giugno, alla Camera bassa del Parlamento di Dublino sono ripresi i lavori parlamentari sul «Protection of life during pregnancy bill», la proposta di legge che permetterebbe un ampliamento notevole delle ipotesi per accedere all’aborto per le donne irlandesi. La chiesa cattolica non è stata a guardare ed ha messo in piedi la campagna “Choose life 2013”: una serie di dossier di carattere formativo e spirituale redatti dal Catholic Communications Office della Conferenza episcopale irlandese e rivolti ai semplici fedeli, ai siti web delle parrocchie e a tutti quanti vogliono contrastare questa nuova legge. Il materiale è confezionato in modo tale che possa facilmente essere inoltrato attraverso le newletters delle parrocchie o delle associazioni pro-life. Nel documento dal titolo “Il tempo della chiarezza e della verità” che spiega l’iniziativa si può individuare il principio base ed inderogabile che muove l’azione episcopale: “Non importa quale legge è stata varata in un Paese: l’aborto è e sarà sempre un’azione gravemente sbagliata”. Nei dossier che analizzano il testo di legge poi non si fanno sconti a riguardo: “il disegno di legge sull’aborto non contiene nessuna procedura per dare attuazione all’ ’obbligo di cura’ dovuto al nascituro; non vi è alcun processo di appello; nessun sedativo da somministrare al bambino prima che gli venga tolta la vita; non vi sono le necessarie valutazioni dei rischi per l’interruzione anticipata e nessun rimedio per un bambino che sopravvive a un aborto, ma soffre di complicazioni mediche a seguito della cessazione anticipata di gravidanza”. La campagna “Choose Life 2013” – che vuole richiamare il concetto di “choice” (scelta), principio cardine degli abortisti – ha dato vita anche ad una veglia di preghiera che si è svolta a Dublino l’8 giugno scorso e il cui slogan era “La scelta della Vita: abbiamo cura di entrambi”, madre e figlio. Lo slogan non è stato ideato a caso. In Irlanda il divieto d’aborto è disciplinato addirittura a livello costituzionale. Infatti l’art. 40 della Costituzione, al terzo comma, così stabilisce: “Lo Stato riconosce il diritto alla vita del bambino non nato e, con la dovuta considerazione per il pari diritto alla vita della madre, garantisce nelle sue leggi il rispetto, e nella misura del possibile, tramite le sue leggi, la difesa e la rivendicazione di tale diritto”. Nel ’92 la Corte Suprema esplicitò i limiti di questo divieto in modo più analitico: si può abortire se la donna è in pericolo di vita, ma il pericolo deve essere “reale e sostanziale”. L’onnipresente Corte Europea dei diritti dell’uomo nel dicembre del 2010 emanò una sentenza sul caso A., B. e C. vs Irlanda in cui, in buona sostanza, si invitava il governo di Dublino a specificare meglio quando la donna in pericolo di vita potesse abortire. Questa indicazione della Corte Europea è stata una manna per il fronte abortista che ha inserito nella legge la possibilità di abortire quando la donna per la sue condizioni di salute non può portare avanti la gravidanza se non a prezzo della sua vita e nel caso in cui questa dichiari che se non abortirà tenterà di togliersi la vita: trattasi pur sempre di pericolo di vita per la donna, non trovate? Questa dichiarazione della donna dovrà essere vagliata da un’equipe di tre medici per verificarne la fondatezza. Risultato: basterà dire di essere pronti al suicidio e l’aborto verrà concesso sempre. E’ dunque per questo motivo che i vescovi hanno voluto far sapere che si schierano a fianco del nascituro ma anche della madre specificando però che “mentre la salute può normalmente essere ripristinata, la vita, una volta persa, non può mai, mai essere ripristinata”, lasciando intendere che ipotetiche turbe psichiche o stati depressivi che possono inclinare a pensieri suicidi sono sempre curabili e che l’aborto aggraverà lo stato della salute delle donne e non lo migliorerà. Inoltre è da notare che il suicidio non viene praticamente mai invocato né desiderato dalla donna a cui è impedito l’aborto. Il 9 gennaio scorso un gruppo di esperti di ostetrici e ginecologi, tra cui Dr. Sam Coulter Smyth (Clinical Professor of Obstetrics and Gynaecology at the Royal College of Surgeons) e la dottoressa Mary McCarthy (University College At Dublin / National University of Ireland), ha tenuto un’audizione parlamentare a Dublino, spiegando che il suicidio in caso di aborto negato è estremamente raro. Negli ospedali dove loro operano ad esempio in 20 anni di attività sono stati registrati zero suicidi. Vedremo invece quante dichiarazioni di aspiranti suicide verranno fuori dopo questa legge. L’Irlanda diventerà in breve tempo la nazione più depressa del mondo. In un comunicato che segue il lancio della campagna “Choose Life 2013” poi i vescovi irlandesi temono che questo disegno di legge cambierà anche il ruolo dei medici e paventano per costoro dei vincoli inaccettabili: “mai nessuna istituzione e nessun operatore medico possono essere obbligati a praticare un aborto contro la loro volontà”. La Conferenza episcopale irlandese ha anche scritto una “Preghiera per il bambino nel grembo materno” che così recita: “Guida Signore il lavoro di medici, infermieri e ostetriche. Che la vita della madre e quella del bambino nel grembo materno siano ugualmente amate e rispettate. Signore Gesù, aiutaci a scegliere la vita in ogni decisione che prendiamo. Amen”.
Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana
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IL MATRIMONIO ''DEVE'' DISCRIMINARE GLI OMOSESSUALI
Il testo del discorso pronunciato alla House of Lords dal noto marxista, libertario e non credente
di Brendan O’Neill - Fonte: UCCR online
Penso che una delle parole più diffamate della lingua inglese sia “discriminazione”, in questo periodo storico usata prevalentemente in senso negativo. E’ principalmente utilizzata nel senso di realizzare dure e oppressive sentenze contro le persone in base al loro sesso, alla loro sessualità o alle loro origini etniche. Il senso positivo – e in un certo senso più vero – del significato della parola “discriminare” si sta perdendo, cioè la capacità di percepire, cogliere e notare le differenze tra le cose. La discriminazione, in modo del tutto onorevole e anche intelligente, è un modo per esprimere giudizi sui diversi valori collegati a cose diverse, ma tale significato è sepolto sotto l’uso più comune della parola per descrivere ogni minima contrarietà verso individui o gruppi specifici. Questo è un peccato, credo, perché abbiamo davvero bisogno di recuperare la capacità di discriminare. Più precisamente, abbiamo bisogno di recuperare il ruolo importante del dare giudizi e riconoscere le differenze che esistono nella nostra società e nelle esperienze di vita delle persone. Il motivo per cui abbiamo bisogno di questo è perché viviamo in un’epoca che potremmo chiamare dell’”uguaglianza fasulla”. Un’epoca in cui ciò che viene presentato come “uguaglianza” equivale a omogeneizzazione, imposizione di identità, una tirannia del relativismo, in ultima analisi, la negazione del diritto dei cittadini ad esercitare anche quella intelligente e colta discriminazione nel dare giudizi sui diversi modi in cui le persone vivono. In un tale clima di soffocante monotonia, è davvero importante che la gente prenda posizione e sia discriminante. La questione del matrimonio gay cattura brillantemente l’idea di come sia degradato il concetto di uguaglianza. Se si ascoltano alcuni ministri del governo e gli attivisti dei diritti dei gay, si crederà che il matrimonio gay sia qualcosa di “uguagliante”, per avere pari diritti. E’ indicato in modo martellante come “matrimonio egualitario” (“equal marriage”), e naturalmente questo significa che chiunque critichi il matrimonio gay venga liquidato come un amico della disuguaglianza, e nessuno vorrebbe essere etichettato in questo modo. Ma quando alcuni ministri e gli attivisti omosessuali parlano dell’attuale esclusione al matrimonio di coppie dello stesso sesso come un problema di disuguaglianza, che cosa intendono? Ad esempio, è un crimine contro l’uguaglianza negare a me l’accesso al Royal College of Music? Che ne è del mio diritto ad essere trattato allo stesso modo di coloro che possono frequentarlo perché sanno suonare uno strumento e leggere la musica? Potrei non avere le credenziali e il talento per fare ciò per cui il Royal College of Music è stato istituito per fare, ma che ne sarebbe del mio uguale diritto a frequentare l’istituto ed utilizzare i suoi servizi? La verità è che le istituzioni discriminano sempre e da sempre. Esse devono farlo perché se non lo facessero avrebbero perso la loro identità, il loro scopo, il loro vero significato. Se il Royal College of Music fosse costretto ad accettare anche chi è inetto musicalmente, cesserebbe di esistere entro un decennio crollando sotto il peso della pressione a non essere discriminante, a non dare giudizi sulla base dell’adeguatezza o dell’idoneità di una persona ad accedere ai suoi servizi. La buona e corretta discriminazione è al centro di ogni istituzione e organizzazione. La discriminazione è ciò che permette alle istituzioni di definire se stesse, cosa significa appartenervi e giudicare chi può essere membro e chi non può. Collegi, partiti politici, chiese, gli Women’s Institute, club sportivi, gruppi di uomini gay ecc… nessuna di queste istituzioni potrebbe continuare ad esistere se non fosse autorizzata ad esercitare la discriminazione, se non le fosse permesso di specificare ciò che è richiesto ai membri per appartenervi e rifiutare coloro che non possiedono tali requisiti. Scrivendo nel 1950, la grande pensatrice liberale Hannah Arendt ha detto: «[Il] diritto alla libera associazione, e quindi alla discriminazione, ha maggiore validità rispetto al principio di uguaglianza». Quello che voleva dire è che, se la libertà e l’uguaglianza sono in conflitto, dovremmo tifare per la libertà piuttosto che per l’uguaglianza. Dovremmo cioè essere dalla parte della libertà di gruppi privati o partiti politici o delle istituzioni che svolgono un ruolo sociale specifico per la libertà di discriminare come strumento per definire chi sono, per dire quale sia il loro scopo e chi può unirsi a loro. Naturalmente, nella sfera pubblica -nel diritto, nel mondo del lavoro, nell’interazione sociale pubblica- tutti devono essere trattati allo stesso modo, ma nella sfera privata, e anche -cosa molto importante-, nelle istituzioni che per anni hanno svolto un ruolo sociale molto specifico per gruppi specifici di persone, essere discriminatori è essenziale. Ciò è stato riconosciuto dai primi pensatori illuministi. John Locke, autore del grande “Lettera sulla tolleranza”, pubblicato nel 1689, ha detto che le istituzioni religiose, e anche altre istituzioni, sono effettivamente “società spontanee”. E quindi, «ne consegue necessariamente il diritto a realizzare leggi proprie su chi può ad esse appartenere, coloro che la società stessa di comune accordo ha autorizzato». “Società spontanee”, gruppi religiosi, gruppi politici, alcune istituzioni con ruoli particolari devono essere almeno relativamente liberi di scrivere le proprie leggi e regole che disciplineranno coloro che hanno “comunemente accettato” di farvi parte. Eppure oggi, nella nostra epoca di uguaglianza fasulla, la capacità delle istituzioni a governare se stessi, a discriminare sulla base della credenza, o ideologia, o idoneità per l’attività, è stata demolita. Questo mette in discussione la possibilità stessa dell’esistenza di organizzazioni e istituzioni, in quanto la pressione ad abbracciare l’uguaglianza può significare dover fare a meno dei propri principi organizzativi e delle credenze specifiche condivise. Alcuni sostenitori del matrimonio gay diranno che il matrimonio è solo amore e quindi se l’istituzione del matrimonio nega l’accesso a persone che si amano e sono dello stesso sesso, questo è senza dubbio opprimente, un chiaro esempio di pratica della disuguaglianza. Si dice che le persone omosessuali hanno tutto quello che è richiesto per contrarre un matrimonio -che è l’amore reciproco e consenziente- e quindi è sbagliato rifiutare loro l’accesso al matrimonio. Ma in realtà, l’amore non è affatto sufficiente per accedere all’istituto del matrimonio, il quale infatti discrimina già e anche contro le persone che si amano. Per esempio, un uomo può essere veramente e appassionatamente innamorato di sua sorella, e lei di lui, ma è assolutamente proibito a loro di sposarsi. Una donna potrebbe essere perdutamente innamorata di due uomini diversi, ma non c’è modo che possa sposare entrambi. Alcuni di noi si ricorderanno quando a 14 anni eravamo perdutamente innamorati di un/una coetanea, ma non avremmo potuto sposarci. Il matrimonio è un’istituzione discriminante, anche contro le persone che si amano. Chiaramente allora è necessario avere qualcosa di più per sposarsi, oltre ad essere innamorati. Chiaramente il matrimonio svolge un altro specifico ruolo sociale, che non è solo quello di permettere alle persone di esprimere il loro amore per un altro. Spingendo verso l’idea di “equal marriage”, ovvero l’idea che sia sbagliato per l’istituzione del matrimonio operare una discriminazione, esso perderà il suo specifico ruolo sociale? Sarà minato il matrimonio inteso come l’unione di due persone con la possibilità di procreare e con la potenziale responsabilità di accogliere la futura generazione? Diverrà privo di senso il matrimonio come principale mezzo attraverso il quale gli adulti e la comunità si assumono la pubblica responsabilità verso le generazioni future? Si, penso che la risposta sia affermativa, proprio come è certo che il ruolo sociale del Royal College of Music sarebbe compromesso se dovesse accogliere chi non può o non è capace di suonare, come me. Il processo di omogeneizzazione vestito da “uguaglianza”, l’incapacità di distinguere tra diversi tipi di relazioni, svuota di significato il matrimonio, perché se tutto è un matrimonio, allora niente lo è. Se l’istituzione del matrimonio non può discriminare, allora non ha alcun senso o scopo strutturale. E’ senza dubbio il caso di ricordare che per molti anni le persone omosessuali sono state trattate in modo diseguale, hanno sofferto l’oppressione. Per centinaia di anni l’attività omosessuale era punibile con la morte. Anche nel periodo più moderno, gli omosessuali sono stati condannati a pene detentive ai lavori forzati solo per aver avuto rapporti sessuali. Queste severe restrizioni sui diritti delle persone gay hanno anche inciso nel modo con cui sono stati trattati all’interno della società, considerati inferiori e anche malati. Per fortuna, questo è cambiato, il sesso omosessuale è stato depenalizzato, le leggi oppressive sono state abrogate e c’è stato un corrispondente cambiamento di atteggiamento sociale. Gli omosessuali sono ormai accettati come membri ordinari della società e vengono trattati allo stesso modo. Ma perché allora la domanda della cosiddetta “uguaglianza del matrimonio”? Questo è davvero interessante perché se si guardano le argomentazioni principali addotte per la “parità di matrimonio” vedrete che spesso hanno una forte componente terapeutica. L’argomento è che vedendo rifiutato il diritto di sposarsi, i gay si sentono inutili, disprezzati dalla società. Gli attivisti spesso dicono cose come: «l’impossibilità di dire “io sono sposato” brucia e mi fa sentire come un cittadino di seconda classe». Potrebbero non essere cittadini di seconda classe, ma a volte si sentono come tali e il matrimonio gay aumenterà l’autostima e le persone si sentiranno meglio. Ma non è e non dovrebbe mai essere il ruolo del governo quello di fornire una terapia o far sentire meglio, in relazione alla parità di trattamento, il governo dovrebbe fare solo una cosa: offrire pari opportunità, cioè rimuovere eventuali ostacoli giuridici agli individui o gruppi che partecipano alla sfera pubblica. Ma non può fornire la parità dei risultati, assicurare a tutti la parità di esperienze nella vita, garantendo che tutti abbiano felici e appaganti esistenze, o la parità di appagamento emotivo assicurando che ognuno si senta valorizzato dalla società. Quelle sono cose che dobbiamo realizzare noi stessi, esercitando la nostra autonomia e la scelta del percorso di vita sentiamo più adatto per noi. Invitare il governo a darci la parità delle esperienze di vita, dell’uguaglianza di emozioni è soltanto invitare un maggiore intervento dello Stato nella nostra vita, nella morale e anche nella nostra vita emotiva. In questo modo, possiamo vedere come l’uguaglianza fasulla di oggi non libera le persone, ma piuttosto le rende più dipendenti ai favori dello Stato, e non migliora il tessuto sociale ma piuttosto rende più difficile per gli abitanti e le istituzioni di una società avere ognuno una vita morale interna propria.
Fonte: UCCR online
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LA GERMANIA RICONOSCE I BAMBINI NON NATI: I GENITORI POTRANNO SCEGLIERE UN NOME E DARE LORO SEPOLTURA
Stavolta l'Italia è arrivata prima, la nostra legislazione già prevede questa possibilità
di Tommaso Scandroglio - Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana
Il Parlamento tedesco ha approvato in maggio una norma importante in fatto di vita nascente. Ora sarà possibile dare legalmente un nome anche a quei bambini non nati di peso inferiore ai 500 grammi. Quei piccoli che non sono riusciti a venire al mondo e che vengono chiamati “Sternenkinder”, cioè bambini delle stelle, quindi si vedranno perlomeno riconosciuto il diritto ad un nome inscritto presso l’anagrafe civile e di una degna sepoltura. Inoltre la disposizione legislativa ha valore retroattivo: ciò significa che a tutti i genitori sarà concessa la facoltà di assegnare un nome al proprio figlio nato morto, esibendo il relativo certificato, anche se la morte è avvenuta molti anni prima. La decisione del Bundestag tedesco è significativa per più motivi. In primo luogo contraddice il luogo comune che sei tanto uomo quanto più assomigli morfologicamente ad un essere umano. Anche l’embrione, la morula e lo zigote sono persone. Quello che ci riveste di umanità non è avere due mani, due occhi e un cervello. Per essere uomini basta esistere. Insomma l’uomo non vale tanto quanto pesa e 500 grammi non è il peso minimo di umanità consentito per far parte del genere umano. In secondo luogo il nome anagrafico è prerogativa solo di chi è soggetto di diritto. Il Parlamento tedesco ribadisce – perché il dato di natura giuridica è già cosa nota in casa tedesca – che il concepito è già un qualcuno per lo Stato, al di là del suo grado di sviluppo. In terzo luogo la possibilità di inumazione attesta con maggior forza che il nascituro è a tutti gli effetti una persona. L’antropologia ci conferma in un dato incontrovertibile: se un archeologo scavando scopre una tomba, state pur certi che lì vicino è sorta una città, un nucleo abitativo, un consesso di persone che si è dato delle regole sociali di vita. L’inumazione è prova provata di civiltà perché si riconosce al defunto quegli onori che sono propri solo delle spoglie mortali di una persona. La sepoltura quindi è atto doveroso perché degno solo degli esseri umani. Riconoscere al non nato seppur di pochissime settimane il rito dell’inumazione è riconoscergli lo status di persona. Sulla stessa linea si muove anche il Magistero che, ricordando come il seppellire i morti sia opera di misericordia corporale, in Donum Vitae (1,4) comanda che "i cadaveri di embrioni e di feti umani volontariamente abortiti o non devono essere rispettati come le spoglie degli altri esseri umani". Infine questa norma riverbererà i suoi effetti positivi non solo sulla normativa tedesca che – a differenza di quella italiana – considera l’aborto comunque un reato non punibile solo in alcuni determinati casi, ma anche su tutti gli ordinamenti giuridici degli altri paesi europei in materia di aborto. Infatti per tentar di modificare le legislazioni che legittimano l’aborto è importante, tra le altre cose, instillare tra le persone la percezione e poi la convinzione che il bambino nel ventre della madre è un essere umano a tutti gli effetti. Le leggi sull’aborto sono in un certo qual modo leggi specchio, cioè rispecchiano sul piano del diritto – anche se non sempre – il sentito comune. Difficile chiedere ad un politico di esporsi in Parlamento su questa tematica così delicata se alle sue spalle questi non può contare su un consenso diffuso (ciò non toglie che ogni tanto una ben mirata sortita di qualche onorevole potrebbe ugualmente avere un suo significato e peso politico, nonché culturale). Il riconoscimento del nome ai bambini non nati e la possibilità di dare loro degna sepoltura, al di là del numero di coppie di genitori che decideranno di approfittare di questa opportunità, incide fortemente nel tessuto culturale, forse ben più di tante altre iniziative sociali e di carattere giuridico comunque meritorie. L’Italia già da tempo è arrivata al traguardo tagliato dalla Germania solo settimana scorsa. Infatti il Decreto del Presidente della Repubblica n. 285 del 1990 stabilisce che i resti mortali dei feti non debbano finire tra i rifiuti ospedalieri – tra arti amputati e resezioni di colon – bensì accolti dalla nuda terra. Però solo per quelli di età superiore alle 20 settimane tale iter è obbligatorio, per gli altri è facoltà dei genitori, i quali per lo più sono ignari di tale possibilità (così come le aziende ospedaliere). Su tale fronte da anni in Italia opera l’Associazione Difendere la Vita con Maria che ha costituito su tutto il territorio nazionale una fitta rete di commissioni locali le quali, tra le moltissime attività, promuovono anche il seppellimento dei bambini non nati. Un gesto di onore e pietà per i piccoli morti, un gesto di deterrenza e persuasione per le madri che hanno in animo di abortire e infine un gesto di speranza per quelle vite minacciate dall’odierna e diffusa cultura di morte. Nota di Scienza & Vita: La vicenda ci dà lo spunto per ricordare che anche il Regolamento di Polizia Mortuaria del Comune di Siena (approvato nel 2008), all'articolo 23, prevede la predisposizione di uno spazio apposito presso il Cimitero del Laterino, spazio che esiste anche nel Cimitero della Misericordia. E' possibile per le famiglie interessate richiedere la sepoltura del proprio bambino morto prematuramente a partire dalla 15° settimana di gestazione e che ogni informazione in proposito può essere chiesta al Personale del Reparto Materno-Infantile.
Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana
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LA LEGGE 194 SI FONDA SU BASI ANTI-SCIENTIFICHE
Si pensa che il feto non abbia una vita propria fino alle 24 settimane, ma dal punto di vista scientifico questa idea è falsa (VIDEO: Diario di un Bambino mai nato)
di Roberto Algranato - Fonte: ProLife News
Fonte: ProLife News
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HO ESEGUITO 75.000 ABORTI E MI SONO BATTUTO PER LA SUA LEGALIZZAZIONE NEGLI STATI UNITI
Sebbene fossi ateo, compresi l'abominio che avevo compiuto, poi la conversione al cattolicesimo attraverso l'incontro con l'Opus Dei (VIDEO SHOCK: come si pratica un aborto)
di Bernard Nathanson - Fonte: Il Blog di Costanza Miriano
Fonte: Il Blog di Costanza Miriano
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FERMIAMO LA LEGGE CONTRO L'OMOFOBIA
In grave pericolo la libertà di pensiero in Italia
di Gianfranco Amato - Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana, 11-07-2013
Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana, 11-07-2013
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