SONO LE POLITICHE PER IL CLIMA AD AGGRAVARE LA FAME NEL MONDO
Un rapporto del 2017 svela i rischi dell'ecologismo senza basi scientifiche
di Francesco Ramella
Venerdì scorso è stato pubblicato l'ultimo rapporto curato da tre agenzie dell'ONU sulla sicurezza alimentare e la nutrizione. Il documento evidenzia un'inversione di tendenza: se negli ultimi 25 anni la quota di popolazione mondiale malnutrita si era quasi dimezzata (era pari al 18,6% nel 1991 ed al 10,6% nel 2015), si stima che nel 2016 il numero di persone malnutrite sia aumentato di 38 milioni in termini assoluti e dello 0,4% in percentuali risalendo complessivamente all'11%. Avvenire ha dedicato ampio spazio alla notizia aprendo l'edizione di sabato con un titolo che non lascia spazio a dubbi: "Guerra + clima = fame". Diretto, semplice. Matematico. Ed errato. Né dal documento dell'ONU né dalla letteratura scientifica di settore è possibile evincere una relazione causale tra cambiamenti climatici e prevalenza della malnutrizione. Quali sono le principali ragioni del recente incremento della fame nel mondo? La FAO ne individua tre: 1) gli effetti di El Niño e La Niña, fenomeni climatici ciclici non correlati con le emissioni antropiche; 2) la crescita del numero di conflitti; 3) il rallentamento economico in alcuni Paesi dell'America latina, dell'Africa e dell'Asia occidentale. Con rifermento ai cambiamenti climatici si legge che "benché sia impossibile stabilire una relazione causale, non si può escludere che fenomeni climatici come la maggior frequenza di eventi estremi possano essere la causa di una riduzione della disponibilità di cibo per persona". Non esattamente un due più due fa quattro. Anche perché, stando all'ultimo rapporto dell'IPCC (l'organismo dell'ONU che si occupa di cambiamenti climatici) e contrariamente a quanto affermato dalla quasi totalità degli organi di informazione, ad oggi non vi è alcuna evidenza empirica di un aumento della frequenza o dell'intensità di episodi di siccità o di alluvione a livello mondiale. E' invece fuori discussione il fatto che, grazie alle attuali capacità di previsione dei fenomeni, ai mezzi per difendersi ed alla possibilità di allontanarsi dai luoghi colpiti dai disastri, nel corso dell'ultimo secolo la mortalità conseguente a questi eventi si sia radicalmente ridotta (in Bangladesh, uno dei Paesi potenzialmente più esposti, di ben il 98%). Quanto alla disponibilità di cibo, nel famigerato "anno più caldo di sempre", la produzione di cereali ha raggiunto un livello senza precedenti: il record, stando ai dati diffusi dalla stessa FAO, è destinato ad essere battuto nel 2017 quando si supereranno i 2,6 miliardi di tonnellate, all'incirca 500 milioni in più rispetto a soli dieci anni fa. Detto ciò, occorre sottolineare come politiche volte alla riduzione delle emissioni, benché possano essere viste come una sorta di polizza di assicurazione contro i rischi che potrebbero manifestarsi nel lunghissimo periodo (nel breve e medio termine i benefici ed i costi del riscaldamento globale grosso modo si equivalgono), se non correttamente congegnate, hanno esse stesse ricadute negative sulla malnutrizione come effetto indiretto della minor crescita economica causata da un'artificiale innalzamento del prezzo dell'energia. Al contrario di quanto accadeva nel passato in quella che potremmo definire un'agricoltura a km 0, oggi la scarsità di cibo a livello locale causata da condizioni climatiche sfavorevoli non implica necessariamente impatti negativi sulla alimentazione; questi si manifestano infatti solo nel caso in cui - come evidenzia peraltro lo stesso documento della FAO - le risorse economiche della popolazione non siano sufficienti per l'importazione delle derrate alimentari. Le poche analisi economiche relative a provvedimenti attuati finora puntano in questa direzione: il protocollo di Kyoto ha comportato benefici pari ad un ottavo dei costi arrecati e la politica energetica della UE addirittura ha determinato effetti negativi trenta volte superiori a quelli positivi. Analogamente, i provvedimenti governativi volti a favorire la produzione di biocarburanti, hanno causato negli scorsi anni un incremento dei prezzi dei prodotti destinati alla alimentazione umana aggravando così le condizioni di malnutrizione e determinando secondo una recente stima oltre 190.000 morti premature nel solo anno 2010. Insomma, se finora non possono attribuirsi alle emissioni antropiche responsabilità sull'evoluzione della fame - la cui mitigazione ha invece non poco beneficiato della sempre maggiore disponibilità di energia garantita dai combustibili fossili - non sembra potersi dire lo stesso per le politiche climatiche.
Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana, 18/09/2017
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