LO STATO HA PAURA DI LASCIAR VIVERE I DEBOLI
Perchè è attraverso di loro che si manifesta la Gloria di Dio
di Riccardo Cascioli
Cos'è che fa così tanta paura in un bimbo malato di neanche due anni e nei suoi giovani genitori, tanto da sbarrare le porte dell'ospedale con la polizia e chiudere gli aeroporti? Perché ci deve essere un pericolo grosso se c'è bisogno di tanto sfoggio di forza, se c'è bisogno di mentire continuamente per giustificare la prigionia di Alfie nell'Alder Hey Hospital. Quel bambino in effetti è un segno di contraddizione, sta lì a smascherare il vero volto totalitario di quella che si vanta di essere la patria della democrazia; fa capire con chiarezza che dietro le parole libertà di scelta e autodeterminazione c'è soltanto la morte, voluta e perseguita contro i propri cittadini da un potere che pensa soprattutto a conservare se stesso. Un bambino inerme che si ostina a lottare per vivere è un manifesto contro la morte, e allo stesso tempo è un atto d'accusa contro i medici, che hanno ormai dimenticato cosa voglia dire «prendersi cura». E i genitori ventenni con quella loro sfida impossibile – è Davide contro un Golia ben più grande e minaccioso di quello biblico – ci fanno capire perché i grandi poteri internazionali ci tengono così tanto a distruggere la famiglia: quel legame di sangue, che coinvolge gli affetti più profondi, che suscita un'appartenenza reciproca invincibile, genera una relazione che è davvero l'ultimo punto di resistenza contro un potere che ci vuole individui slegati da ogni rapporto così da determinare ogni aspetto della nostra vita. Per questo Alfie deve morire, il Potere non può sopportare questo affronto; se la vita vincesse, metterebbe in discussione quel castello di morte nel quale tutti viviamo convinti di godere di chissà quali libertà. Più e più persone aprirebbero gli occhi sulla vera natura degli Stati moderni e di organizzazioni sovranazionali come l'Unione Europea. È quel che sta già accadendo grazie ad Alfie. Perché dall'altra parte è più che sorprendente la folla che da due giorni protesta davanti all'ospedale invocando la vita di Alfie. Cos'è che ha attirato migliaia di persone davanti all'ospedale di Liverpool, al punto da rimanere per lunghe ore, anche notturne, a vegliare e manifestare per un bambino e per una famiglia che non hanno mai conosciuto personalmente? Certo, c'è una palese ingiustizia ai danni di un bambino gravemente malato; è evidente che c'è un intollerabile accanimento nei confronti dei genitori di Alfie, accanimento che arriva quasi alla tortura. È vero questo, ma non spiega tutto di questa mobilitazione spontanea. C'è – almeno inconsciamente - che in Alfie ciascuno di noi è attaccato personalmente. Perché se la "qualità della vita" sostituisce "la sacralità della vita", allora ognuno di noi è in pericolo. Se la vita è sacra appartiene solo a Dio, nessun uomo può decidere se farci nascere e quando morire, è più grande di noi stessi; ma se valutiamo la vita secondo le misure umane, se facciamo graduatorie per stabilire la qualità della vita, allora ognuno di noi è alla mercé del Potere, che stabilirà di volta in volta – secondo convenienza e utilità - i confini della vita: quanti figli avere, se fare nascere i portatori di gravi malattie, quando togliere il disturbo da questo mondo. Di più: ci interroga sul senso della nostra vita, perché di fronte a un malato che lo Stato vuole eliminare con accanimento, non possiamo non chiederci se la nostra vita, la mia vita, quel desiderio di assoluto e di infinito che ci definisce può essere ridotto all'efficienza e all'utilità. Ecco perché, anche se non ne siamo pienamente consapevoli, la vita di Alfie è la vita di tutti noi; la battaglia per Alfie è la battaglia per affermare la nostra vita.
Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana, 14/04/2018
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