I BAMBINI MAI NATI HANNO DIRITTO AD UN NOME
...E non ad essere offesi, con le loro madri, da troppe sensibilità progressiste
di Tommaso Scandroglio
Relata refero: i bambini abortiti sono “figli di puttana”. Parola di Maria Luisa Mastrogiovanni, direttrice del giornale Il Tacco di Italia. Quello che ha scatenato nella giornalista un improvviso versamento biliare è stata la notizia che il Consiglio comunale di Lecce ha approvato una mozione per l’istituzione di un’anagrafe dei bambini mai nati e per consentire ai genitori, se lo desiderano, di dare degna sepoltura al loro piccolo. Il nostro ordinamento prevede già in capo ai genitori la facoltà di chiedere i resti del nascituro di età inferiore alla 28° settimana entro le 24 ore dall’espulsione o estrazione del feto – altrimenti finisce nell’inceneritore - ma nulla dice riguardo alla possibilità di iscrivere il suo nome nei registri di Stato Civile. E così l’associazione Pensiero Celeste ha lanciato questa campagna sulla “natimortalità”, un fenomeno che riguarda i bambini non nati, campagna che avuto l’adesione anche della forza politica chiamata Movimento Regione Salento. L’appello è stato accolto favorevolmente dal piccolo comune di Monteroni e successivamente ha ricevuto l’attenzione da parte delle municipalità di Taranto, Brindisi e Lecce. Alfedo Pagliaro, presidente del consiglio comunale leccese, così commenta l’iniziativa: «I genitori che hanno vissuto questa brutta esperienza non devono sentirsi soli. Per questo chiediamo che venga istituita un’anagrafe comunale dei bambini mai nati. Contemporaneamente reclamiamo l’obbligatorietà al trasporto dei feti morti da parte della Asl». La proposta passata a Lecce ha avuto per la Mastrogiovanni lo stesso effetto di quello di mettere del sale su un ferita: «Una proposta disumana. Inizia la caccia alle streghe del Movimento regione Salento che vuole tumulare gli embrioni. Vi chiedo di immaginare il dolore di una donna che abbia perso il bambino per cause al di sopra della sua volontà. Oppure pensate ad una donna che abbia deciso di abortire: trovatemene una, in un caso o nell’altro, che abbia vissuto l’esperienza a cuor leggero. Una per cui l’aborto, nonostante tutto, e nonostante l’abbia scelto, non sia stato uno shock. Probabilmente queste donne avranno solo voglia di rimuovere o elaborare la perdita, facendosene una ragione». La giornalista fa un autogol davvero eclatante: la prova che nel ventre della madre c’è un essere umano, degno di sepoltura e di riconoscimento giuridico, ci viene proprio dal fatto che la donna che ha praticato un aborto – tutte le donne, ammette la direttrice – hanno subito un grave shock emotivo (chiamasi sindrome post-abortiva). Se era un grumo di cellule, così come la Mastrogiovanni asserisce nel prosieguo dell’articolo, perché darsi tanta pena? La sofferenza della donna che ha abortito è la prova provata che è stato ucciso un bambino, anzi un figlio. C’è poi un altro aspetto che per colpa o dolo sfugge alla direttrice. La possibilità di iscrizione all’anagrafe è vincolata alla libera decisione dei genitori. La sepoltura – se la delibera arriverà in porto – sarà invece sempre eseguita al di là del consenso dei genitori, ma di certo non si obbligherà nessun genitore a presenziarvi. Quindi la delibera non costringerà di certo le madri che avranno abortito volontariamente a seppellire il proprio bambino e a dargli un nome, ma riguarderà quasi esclusivamente quei genitori che avranno perso il loro bambino contro la loro volontà ed anche per loro comunque sarà una mera facoltà. Difficilmente infatti una donna che avrà deciso di non tenere il proprio figlio prenderà la decisione di iscriverlo al Comune e di deporlo in una bara. Ma anche se fosse, perché negare a questa madre un successivo conforto, una riparazione ormai a tempo scaduto per un gesto di cui magari subito dopo si è pentita? Se c’è una supposta “libertà” di abortire, perchè corrispettivamente non ci dovrebbe essere la libertà di riconoscere il figlio con i gesti propri della pietà dovuta ai defunti e con un documento di valore legale? Ma proseguiamo nella lettura dell’editoriale: «Prendete invece questi feti, inseriteli in un albo comunale ufficiale, realizzate poi un recinto speciale nel cimitero. Ecco fatto il recinto dei figli di puttana. Il ghetto dei figli di stronze. Oppure dei mostri, dei diversi, di quelli che erano troppo deformi per condurre una vita normale. […] Perché immaginatevi poi gli antiabortisti a fare funerali a questi mucchietti di cellule, con frasi ad effetto sulla vita e l’amore negato». Oltre all’ingiuria della morte anche l’ingiuria del disprezzo. Perché tanto livore? Perché per l’abortismo duro e puro è assolutamente necessario rimuovere quel figlio che così fa tanto problema, cancellare ogni traccia di lui dal mondo, dalla memoria che è il luogo dove le persone vivono per molti anni ancora qui sulla terra. Siamo oltre all’omicidio, siamo all’annientamento assoluto del figlio, il vero nemico da polverizzare: questo odioso esserino che non ne vuole sapere di morire anche dopo morto. Se ci pensiamo bene, il nome è il primo riconoscimento del nostro esistere che noi tutti riceviamo addirittura a volte prima di essere concepiti e la sepoltura è l’ultimo segno che attesta che noi eravamo qualcuno, persone. Questi tratti che gridano al mondo la nostra identità e unicità non possono e non devono essere riconosciuti al nascituro, altrimenti tutti capiranno che lì in quella tomba e lì in quel rigo dell’albo speciale anagrafico si custodiscono le spoglie mortali e civili di un essere umano. «Un feto, un embrione, invece, non hanno alcun diritto perché non sono un essere umano», scrive di contro la giornalista. L’abortismo intuisce la portata dinamitarda di questi simboli e gesti che possono scuotere le coscienze di molti e reagisce con odio: il bimbo che sopravvive in qualche modo e nonostante tutto in fondo ad una fossa oppure nascosto in un faldone anonimo in Comune è comunque un dannato, un maledetto (da “dire male”), uno che non deve avere nome e identità. E se qualcuno osa invece battezzarlo civilmente o con un pugno di terra sulla bara che almeno gli si assegni il nome di “figlio di puttana”, lui che all’opposto è chiamato ad essere “figlio di Dio”. All’insulto della Mastrogiovanni, i genitori che hanno perso il loro figlio prima che venisse al mondo hanno risposto postando su Facebook il nome del proprio bambino seguito da #iononsonounfigliodiputtana. Ed è questo il paradosso: papà e mamma vogliono comunque compiere un gesto di amore e dare un nome al proprio figlio che non c’è più – un nome che il più delle volte è quello celestiale di un santo – ed invece l’abortista lo vuole battezzare con il nome greve del rancore: “figlio di puttana”.
Vengono chiamati “figli di puttana”, ma la vera prostituzione è quella di chi si vende al credo abortista sposandolo in libertà. Vengono chiamati “figli di puttana”, ma la vera meretrice è la cultura di morte che, lei sì, genera in continuazione molti figli a lei devoti.
Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana, 29 giugno 2014
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