L’IPOCRISIA DELLA LEGGE 194
Il racconto di chi ci è passato...l’ipocrisia della prassi dell’applicazione di una Legge che molti vogliono dirci ‘‘inevitabile’‘ e la commovente storia di una famiglia
di Testimonianza di Concetta Mallitti
«…perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena», (Gv15). Credo di aver sentito questo passo centinaia di volte, ma mai mi sono soffermata ad ascoltarlo con il cuore e così Dio ha visitato la nostra casa proprio per sigillare questa certezza nella nostra vita, la certezza della Gioia Piena. La nostra storia è una storia ordinaria, che trova la sua straordinarietà in questa certezza. È la storia di una famiglia normale, ancora in cammino, verso la conversione nella certezza della vita eterna. Appena un anno dopo la prima gravidanza ecco che si affaccia alla vita la nostra seconda figlia, io e Michele eravamo felicissimi. Lei era già lì con noi: erano in programma i biscottini a forma di cuore da regalare alla sua nascita, il lenzuolino ricamato dalla nonna, le coccole di tutti noi, per lei avevamo fatto mille progetti. Ma tutta questa gioia si trasformò in tristezza, dolore e solitudine. Alla 22esima settimana di gravidanza arrivò la diagnosi: displasia tanatofora incompatibile con la vita. Per i medici era già morta: «Signora, è necessario l’aborto terapeutico», questo mi disse il ginecologo che fece l’ecografia. Nessuna parola in merito alla “comfort care”, alla depressione post-aborto, alla possibilità di portare avanti la gravidanza. Niente, solo il bigliettino con su scritto Dott.ssa x, Policlinico x, edificio 9, ore 8.00: «Le dica pure che l’ho mandata io». Non riesco a spiegare la morte che era in me, non ci sono parole per spiegare il dolore, ricordo solo me, piegata in due, che urlavo: «Dio, consolami, voglio essere consolata». Ma Dio mi sembrava lontano. Il giorno dopo, io e Michele andammo ad aprire la pratica per l’aborto terapeutico. Seguì un iter di tre giorni, in cui mi trovai immersa in un mondo totalmente estraneo a me e che di umano non ha nulla: pareva un “mercato” di donne che andavano a uccidere i propri figli. Quante mamme, quante in una sola mattina! Contai più di 10 bambini che non sarebbero mai nati. Le scritte sui muri di chi vi era passato erano terribili. Una diceva: «Dio qui è morto». Pensai ad Auschwitz… Non c’era niente di umano nei discorsi che, allegramente, quelle donne si scambiavano tra di loro; senza vergogna raccontavano perché erano lì. C’era la quarantenne esperta già al suo secondo aborto e la ragazzina (credo minorenne) impaurita che chiedeva consigli. L’esperta le diceva di non preoccuparsi e di prendere la Ru468. Una trentenne con già due figli diceva: «Questo sarebbe il terzo, ma da poco ho ripreso la palestra e riconquistato un po’ la mia vita». E poi c’era una donna, con la mia stessa panciona. Mi feci forza e le chiesi: «E tu?». Mi rispose: «Ha la sindrome di Down». Li capii e pensai: «Ma perché se il mio è un aborto terapeutico inevitabile, viene considerato come quello di chi un figlio Down? Non si fa solo per i bimbi incompatibili con la vita?». La prima luce si accese. Toccava a me, era il mio turno. Ecco la Dott.ssa X, alta, bionda, occhi azzurri, pensai che fosse la donna più bella che avessi mai visto. Mi invitò a sedermi. Mi spiegò che lei avrebbe effettuato l’aborto: «Ti indurrò un parto con le prostaglandine». Ora i sui occhi erano vicini, li osservai, erano azzurri ma vuoti. «Partorirai il feto vivo o morto!», mi disse. Le chiesi: «Vivo?». E lei: «Sì e se capita purtroppo la legge ci impone di rianimarlo». Guardai mio marito e gli dissi: «Io non lo farò mai, e non perché sono cristiana, ma perché sono un essere umano». La Dott.ssa X mi invitò a terminare la pratica e a fare la visita dallo psichiatra, ci andai pensando di tranquillizzare me e mio marito, ma avevo già deciso. Invece lì conobbi l’ipocrisia più grande. Eccolo lo psichiatra, la superbia in persona, a suo seguito una laureanda inesperta, trattata come un cane. C’era anche la donna con il bimbo Down. Lui aveva le gambe accavallate, disteso come se stesse in poltrona: «Secondo la legge 194 l’aborto terapeutico è permesso per salvaguardare la salute fisica e psichica della donna, inoltre anche la Chiesa non si espone su questi tipi di aborto. Siete d’accordo? Firmate?». «Tutto qui?», pensai. Poi la laureanda ci passò il foglio, l’altra donna firmò e lo passò a me in silenzio. «Mi scusi – dissi sobbalzando sulla poltrona – io voglio una visita». E lui esterrefatto: «Cosa?». Risposi che ero venuta a fare una visita psichiatrica. Poi continuai: «Lei ha detto che per la legge 194 l’aborto è permesso per la salvaguardia della salute psichica della donna, ma siamo sicuri che non la peggiori? Secondo lei non è più traumatizzante per una donna uccidere il proprio figlio?». A questo punto fece uscire dalla stanza la laureanda e mi disse: «Ma lei lo vuole fare o no questo aborto?». «No!» risposi, mi alzai e lo salutai. Mi lasciò di ghiaccio quando, con un sorriso cinico e sarcastico, mi rispose: «Tanto fra due giorni tornerà qui e firmerà». Credo che mi pensi spesso, perché era davvero certo che sarei tornata. Invece il giorno dopo ero felice. Andai in ospedale e spiegai all’infermiera che ero andata lì a ritirare la pratica. Lei era incredula. Alzò la mia cartella clinica e chiamò le altre infermiere «Mallitti è venuta a ritirare la pratica! Avete capito, Mallitti ritira la pratica», poi a me: «Brava fai fare alla natura!». Non osò nominare Dio… come parlare di Dio in quel posto? Ma io ero davvero felice, lasciandomi il reparto alle spalle. Mi voltai solo un momento e vidi la madre del bimbo Down che mi disse: «Ti ammiro, io non avrei avuto la tua stessa forza». La salutai. Avrei voluto dirle: «Vieni via con me». Ma mi mancò la voce e il coraggio che lei mi attribuiva. Ora penso a lei tutti i giorni, penso spesso che per lei non ho fatto niente. Vorrei sapere come sta e che cosa mi direbbe se le chiedessi se sta meglio ora che ha ucciso suo figlio. Come desiderava mio marito, decidemmo che nostra figlia si sarebbe chiamata Benedetta, perché per la nostra famiglia era una benedizione. I mesi successivi non furono facili, ricevemmo critiche da familiari e medici. Mi sentii dire di tutto: «Come fai a tenere in pancia una bimba che morirà?»; «devi abortire per il bene della tua famiglia»; «il problema te lo devi togliere adesso»; «è un sacrificio inutile, tanto deve comunque morire»; «metti al mondo un essere per farlo soffrire». Queste sono solo alcune delle parole che mi sentii dire, come se uccidere un figlio avrebbe fatto stare meglio me e lui. Ma insieme arrivarono anche mille fratelli in aiuto, e molte grazie: la prima fu mio marito, uno sposo fedele che mi ha sempre sostenuta, poi l’amicizia di don Antonio e i miei fratelli della comunità Neocatecumenale di Pomigliano d’Arco. Anche mia Madre, mia sorella, mia cugina Teresa e il mio ginecologo di fiducia mi appoggiarono. E come la vedova molesta chiesi preghiere a tutti: «O la guarigione o la grazia di portare una croce insopportabile». Così il 26 ottobre del 2012 alle 11.08 nacque Benedetta. Mi fecero un cesareo che fu molto doloroso, ma solo fisicamente. Conosco la mia debolezza, per questo in quei mesi di gravidanza cercai di fortificarmi più che potevo con la preghiere. Sentii che mentre entravo nella sala operatoria con me c’erano anche le preghiere delle suore e dei carmelitani e dei loro 150 conventi di clausura, che ad uno ad uno avevo chiamato chiedendo di pregare. Entrò con me l’Eucarestia presa tutti i giorni, le preghiere dei fratelli della mia comunità, di mia madre, dei Servi di Cristo Vivo, di quell’estraneo che mi regalò la sua medaglia miracolosa dicendomi: «Questa me l’hanno regalata per la mia guarigione, io rinuncio alla mia guarigione per tua figlia!!!». C’era anche la preghiera di quel funzionario del Comune, che pianse con me dopo che mi avevano comunicato che per Benedetta avevano preparato un loculo e che non c’era una culla ad aspettarla. Entrai in sala operatoria più ricca che mai. Alla nascita Benedetta piangeva e respirava da sola. Fu una sorpresa per i medici che dicevano che sarebbe potuta morire subito. Benedetta poi era bella, non un mostro come mi avevano detto i dottori. «Quando ti ho operata e ho preso il viso di tua figlia tra le mani, ho pensato che non avevo mai visto una bimba così bella», queste furono le parole piene di commozione del mio ginecologo. Nel pomeriggio Benedetta ricevette il Battesimo. Don Antonio fu felicissimo di battezzarla e con lei c’erano la sua madrina, il suo papà e tutti i medici e gli infermieri del reparto. Michele per due giorni le ha cantato instancabilmente i salmi tenendola per mano. E il 28 ottobre, alle ore 20.30, Benedetta è nata in cielo, l’abbiamo accompagnata con i salmi. Non so perché, ma l’unico che usciva dalla mia bocca era: «Esultate giusti nel Signore, ai retti si addice la lode». Alle ore 20.00 i medici mi dissero che Benedetta sarebbe vissuta ancora per 12 ore. In quel momento mia figlia era fra le mie braccia e le sussurrai: «Benedetta, amore di mamma, se vuoi andare vai. Noi non ti tratteniamo, vai da Gesù e digli che siamo felici di aver messo al mondo una bimba speciale come te, che ci ha insegnato cos’è l’Amore». Appena le ho detto questo, lei è spirata tra le mia braccia. Ho la certezza della vita eterna ed ho la certezza che l’anima è matura già quando una vita nasce in noi mamme. E che l’anima di Benedetta era pronta, pregustava già la Gioia Piena verso cui non ha esitato un attimo ad andare. Aspettava solo che fossi pronta io: voleva andarsene, ma voleva che la salutassi amandola veramente. Porto in me il dolore di aver perso una figlia che con i seni pieni di latte non potevo allattare, ma questa non è paragonabile alla felicità piena. Così quando penso a mia figlia mi assale una gioia immensa e so che non viene da me, è una una Gioia Donata. Ringrazio Dio che, come ha combattuto con noi la “buona battaglia”, restandomi fedele nonostante le mie infedeltà. Spesso ci dicono: «Siete stati coraggiosi», ma non è così, noi non siamo gli eroi di una tragedia. Io sono un’indecisa, una debole. Per questo di fronte a una Croce troppo pensante ci siamo aggrappati con tutte le forze a Dio. Il 30 ottobre, poi, fu celebrato il funerale. La chiesa era stracolma di persone. Erano a centinaia e sembrava tutto fuorché un funerale. Fu una festa con canti, cembali, bonghi, chitarre, perché quando una persona cara muore si è umanamente tristi ma nella Gioia cristiana. Per questo quando la piccola bara bianca entrò in chiesa cantammo un passo del Cantico de Cantici: «Cercai l’amore dell’anima mia, lo cercai senza trovarlo, trovai l’amore dell’anima mia l’ho abbracciato e non lo lascerò mai». Benedetta aveva abbracciato il suo Sposo. Ciò che mi fece più felice fu vedere alla fine della celebrazione le persone presenti dirci «grazie». Al funerale di mia figlia nessuno mi aveva fatto le condoglianze. Un collega di mio marito pianse dicendo che noi eravamo fortunati, perché avevamo una cosa bellissima che lui non aveva. Se mi pento di aver anche solo pensato di aprire la procedura per l’aborto, ora capisco che dovevo passare dal vedere quella realtà. Per dire a tutti che non esiste aborto che sia terapeutico e che Benedetta poteva non nascere. Il nostro è stato un “NO” all’aborto, scandaloso per coloro che dicevano che mia figlia doveva morire, perché non conforme alla “normalità”. Ma è proprio attraverso la “stoltezza della Croce”, quella più assurda, che l’uomo può vedere la resurrezione e dire «grazie» a Dio. Benedetta ha fatto della sua vita una lode a Dio ed io come madre non posso che provare gioia, perché un figlio si fa per ricondurlo a Colui che lo ha creato. Al funerale abbiamo regalato centinaia di segnalibri. Dicevano così: «Mettere alla luce un bimbo, pur sapendo che deve morire ha un senso, abortire, anche quando ci sono tutti i presupposti medici e legali per farlo, non impedisce al feto di morire come un “rifiuto”, senza nome e buttato chissà dove. Partorirlo significa donargli la dignità di essere umano, con un nome e un’identità, anche se per poche ore, significa battezzarlo e donargli la dignità di cristiano, significa farlo morire nell’amore dei genitori, dei nonni, degli zii e dei familiari, tra le coccole, le cure e le attenzioni di tutti, con un funerale e tutto quello che ogni essere umano dovrebbe ricevere per diritto. Questo è il senso per chi non l’avesse capito! Ciao Benedetta, la tua famiglia è fiera di Te».
Benedetta ora giace e adagiato su di lei c’è un lenzuolino ricamato dalla nonna su cui c’è scritto: «Benedetta Dono di Dio»
Fonte: Tempi
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