IL MATRIMONIO ''DEVE'' DISCRIMINARE GLI OMOSESSUALI
Il testo del discorso pronunciato alla House of Lords dal noto marxista, libertario e non credente
di Brendan O’Neill
Penso che una delle parole più diffamate della lingua inglese sia “discriminazione”, in questo periodo storico usata prevalentemente in senso negativo. E’ principalmente utilizzata nel senso di realizzare dure e oppressive sentenze contro le persone in base al loro sesso, alla loro sessualità o alle loro origini etniche. Il senso positivo – e in un certo senso più vero – del significato della parola “discriminare” si sta perdendo, cioè la capacità di percepire, cogliere e notare le differenze tra le cose. La discriminazione, in modo del tutto onorevole e anche intelligente, è un modo per esprimere giudizi sui diversi valori collegati a cose diverse, ma tale significato è sepolto sotto l’uso più comune della parola per descrivere ogni minima contrarietà verso individui o gruppi specifici. Questo è un peccato, credo, perché abbiamo davvero bisogno di recuperare la capacità di discriminare. Più precisamente, abbiamo bisogno di recuperare il ruolo importante del dare giudizi e riconoscere le differenze che esistono nella nostra società e nelle esperienze di vita delle persone. Il motivo per cui abbiamo bisogno di questo è perché viviamo in un’epoca che potremmo chiamare dell’”uguaglianza fasulla”. Un’epoca in cui ciò che viene presentato come “uguaglianza” equivale a omogeneizzazione, imposizione di identità, una tirannia del relativismo, in ultima analisi, la negazione del diritto dei cittadini ad esercitare anche quella intelligente e colta discriminazione nel dare giudizi sui diversi modi in cui le persone vivono. In un tale clima di soffocante monotonia, è davvero importante che la gente prenda posizione e sia discriminante. La questione del matrimonio gay cattura brillantemente l’idea di come sia degradato il concetto di uguaglianza. Se si ascoltano alcuni ministri del governo e gli attivisti dei diritti dei gay, si crederà che il matrimonio gay sia qualcosa di “uguagliante”, per avere pari diritti. E’ indicato in modo martellante come “matrimonio egualitario” (“equal marriage”), e naturalmente questo significa che chiunque critichi il matrimonio gay venga liquidato come un amico della disuguaglianza, e nessuno vorrebbe essere etichettato in questo modo. Ma quando alcuni ministri e gli attivisti omosessuali parlano dell’attuale esclusione al matrimonio di coppie dello stesso sesso come un problema di disuguaglianza, che cosa intendono? Ad esempio, è un crimine contro l’uguaglianza negare a me l’accesso al Royal College of Music? Che ne è del mio diritto ad essere trattato allo stesso modo di coloro che possono frequentarlo perché sanno suonare uno strumento e leggere la musica? Potrei non avere le credenziali e il talento per fare ciò per cui il Royal College of Music è stato istituito per fare, ma che ne sarebbe del mio uguale diritto a frequentare l’istituto ed utilizzare i suoi servizi? La verità è che le istituzioni discriminano sempre e da sempre. Esse devono farlo perché se non lo facessero avrebbero perso la loro identità, il loro scopo, il loro vero significato. Se il Royal College of Music fosse costretto ad accettare anche chi è inetto musicalmente, cesserebbe di esistere entro un decennio crollando sotto il peso della pressione a non essere discriminante, a non dare giudizi sulla base dell’adeguatezza o dell’idoneità di una persona ad accedere ai suoi servizi. La buona e corretta discriminazione è al centro di ogni istituzione e organizzazione. La discriminazione è ciò che permette alle istituzioni di definire se stesse, cosa significa appartenervi e giudicare chi può essere membro e chi non può. Collegi, partiti politici, chiese, gli Women’s Institute, club sportivi, gruppi di uomini gay ecc… nessuna di queste istituzioni potrebbe continuare ad esistere se non fosse autorizzata ad esercitare la discriminazione, se non le fosse permesso di specificare ciò che è richiesto ai membri per appartenervi e rifiutare coloro che non possiedono tali requisiti. Scrivendo nel 1950, la grande pensatrice liberale Hannah Arendt ha detto: «[Il] diritto alla libera associazione, e quindi alla discriminazione, ha maggiore validità rispetto al principio di uguaglianza». Quello che voleva dire è che, se la libertà e l’uguaglianza sono in conflitto, dovremmo tifare per la libertà piuttosto che per l’uguaglianza. Dovremmo cioè essere dalla parte della libertà di gruppi privati o partiti politici o delle istituzioni che svolgono un ruolo sociale specifico per la libertà di discriminare come strumento per definire chi sono, per dire quale sia il loro scopo e chi può unirsi a loro. Naturalmente, nella sfera pubblica -nel diritto, nel mondo del lavoro, nell’interazione sociale pubblica- tutti devono essere trattati allo stesso modo, ma nella sfera privata, e anche -cosa molto importante-, nelle istituzioni che per anni hanno svolto un ruolo sociale molto specifico per gruppi specifici di persone, essere discriminatori è essenziale. Ciò è stato riconosciuto dai primi pensatori illuministi. John Locke, autore del grande “Lettera sulla tolleranza”, pubblicato nel 1689, ha detto che le istituzioni religiose, e anche altre istituzioni, sono effettivamente “società spontanee”. E quindi, «ne consegue necessariamente il diritto a realizzare leggi proprie su chi può ad esse appartenere, coloro che la società stessa di comune accordo ha autorizzato». “Società spontanee”, gruppi religiosi, gruppi politici, alcune istituzioni con ruoli particolari devono essere almeno relativamente liberi di scrivere le proprie leggi e regole che disciplineranno coloro che hanno “comunemente accettato” di farvi parte. Eppure oggi, nella nostra epoca di uguaglianza fasulla, la capacità delle istituzioni a governare se stessi, a discriminare sulla base della credenza, o ideologia, o idoneità per l’attività, è stata demolita. Questo mette in discussione la possibilità stessa dell’esistenza di organizzazioni e istituzioni, in quanto la pressione ad abbracciare l’uguaglianza può significare dover fare a meno dei propri principi organizzativi e delle credenze specifiche condivise. Alcuni sostenitori del matrimonio gay diranno che il matrimonio è solo amore e quindi se l’istituzione del matrimonio nega l’accesso a persone che si amano e sono dello stesso sesso, questo è senza dubbio opprimente, un chiaro esempio di pratica della disuguaglianza. Si dice che le persone omosessuali hanno tutto quello che è richiesto per contrarre un matrimonio -che è l’amore reciproco e consenziente- e quindi è sbagliato rifiutare loro l’accesso al matrimonio. Ma in realtà, l’amore non è affatto sufficiente per accedere all’istituto del matrimonio, il quale infatti discrimina già e anche contro le persone che si amano. Per esempio, un uomo può essere veramente e appassionatamente innamorato di sua sorella, e lei di lui, ma è assolutamente proibito a loro di sposarsi. Una donna potrebbe essere perdutamente innamorata di due uomini diversi, ma non c’è modo che possa sposare entrambi. Alcuni di noi si ricorderanno quando a 14 anni eravamo perdutamente innamorati di un/una coetanea, ma non avremmo potuto sposarci. Il matrimonio è un’istituzione discriminante, anche contro le persone che si amano. Chiaramente allora è necessario avere qualcosa di più per sposarsi, oltre ad essere innamorati. Chiaramente il matrimonio svolge un altro specifico ruolo sociale, che non è solo quello di permettere alle persone di esprimere il loro amore per un altro. Spingendo verso l’idea di “equal marriage”, ovvero l’idea che sia sbagliato per l’istituzione del matrimonio operare una discriminazione, esso perderà il suo specifico ruolo sociale? Sarà minato il matrimonio inteso come l’unione di due persone con la possibilità di procreare e con la potenziale responsabilità di accogliere la futura generazione? Diverrà privo di senso il matrimonio come principale mezzo attraverso il quale gli adulti e la comunità si assumono la pubblica responsabilità verso le generazioni future? Si, penso che la risposta sia affermativa, proprio come è certo che il ruolo sociale del Royal College of Music sarebbe compromesso se dovesse accogliere chi non può o non è capace di suonare, come me. Il processo di omogeneizzazione vestito da “uguaglianza”, l’incapacità di distinguere tra diversi tipi di relazioni, svuota di significato il matrimonio, perché se tutto è un matrimonio, allora niente lo è. Se l’istituzione del matrimonio non può discriminare, allora non ha alcun senso o scopo strutturale. E’ senza dubbio il caso di ricordare che per molti anni le persone omosessuali sono state trattate in modo diseguale, hanno sofferto l’oppressione. Per centinaia di anni l’attività omosessuale era punibile con la morte. Anche nel periodo più moderno, gli omosessuali sono stati condannati a pene detentive ai lavori forzati solo per aver avuto rapporti sessuali. Queste severe restrizioni sui diritti delle persone gay hanno anche inciso nel modo con cui sono stati trattati all’interno della società, considerati inferiori e anche malati. Per fortuna, questo è cambiato, il sesso omosessuale è stato depenalizzato, le leggi oppressive sono state abrogate e c’è stato un corrispondente cambiamento di atteggiamento sociale. Gli omosessuali sono ormai accettati come membri ordinari della società e vengono trattati allo stesso modo. Ma perché allora la domanda della cosiddetta “uguaglianza del matrimonio”? Questo è davvero interessante perché se si guardano le argomentazioni principali addotte per la “parità di matrimonio” vedrete che spesso hanno una forte componente terapeutica. L’argomento è che vedendo rifiutato il diritto di sposarsi, i gay si sentono inutili, disprezzati dalla società. Gli attivisti spesso dicono cose come: «l’impossibilità di dire “io sono sposato” brucia e mi fa sentire come un cittadino di seconda classe». Potrebbero non essere cittadini di seconda classe, ma a volte si sentono come tali e il matrimonio gay aumenterà l’autostima e le persone si sentiranno meglio. Ma non è e non dovrebbe mai essere il ruolo del governo quello di fornire una terapia o far sentire meglio, in relazione alla parità di trattamento, il governo dovrebbe fare solo una cosa: offrire pari opportunità, cioè rimuovere eventuali ostacoli giuridici agli individui o gruppi che partecipano alla sfera pubblica. Ma non può fornire la parità dei risultati, assicurare a tutti la parità di esperienze nella vita, garantendo che tutti abbiano felici e appaganti esistenze, o la parità di appagamento emotivo assicurando che ognuno si senta valorizzato dalla società. Quelle sono cose che dobbiamo realizzare noi stessi, esercitando la nostra autonomia e la scelta del percorso di vita sentiamo più adatto per noi. Invitare il governo a darci la parità delle esperienze di vita, dell’uguaglianza di emozioni è soltanto invitare un maggiore intervento dello Stato nella nostra vita, nella morale e anche nella nostra vita emotiva. In questo modo, possiamo vedere come l’uguaglianza fasulla di oggi non libera le persone, ma piuttosto le rende più dipendenti ai favori dello Stato, e non migliora il tessuto sociale ma piuttosto rende più difficile per gli abitanti e le istituzioni di una società avere ognuno una vita morale interna propria.
Fonte: UCCR online
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