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Il caso di Tafida, la bambina di 5 anni che secondo i medici inglesi del Royal Hospital di Londra sarebbe dovuta morire «nel suo miglior interesse» e che, invece, curata al Gaslini di Genova, ha mostrato segni di miglioramento, è macroscopico per la sua rilevanza e implicazioni.
La storia la conoscete e ieri su tutti i quotidiani italiani se ne dava conto, mischiando un (comprensibile) stato di giubilo per una vita che si riaccende e un (legittimo) orgoglio per l'ottimo lavoro svolto dai dottori dell'ospedale italiano. Poi, ovvio, non finisce qui: per la piccola il percorso di riabilitazione sarà lungo e faticoso, ma da "è meglio se muore" a "la prospettiva è mandarla a casa" c'è un bel salto.
Esistono due elementi della vicenda che sono rimasti un po' nell'ombra e che è bene evidenziare. Il primo riguarda alcune espressioni usate dai medici italiani durante la conferenza stampa; il secondo è la fede musulmana dei genitori di Tafida, che si sono battuti come leoni per farle avere assistenza.
Ha detto Paolo Petralia, direttore generale dell'Istituto, citando una frase del papa, «curare è incontrare le persone».
«Siamo felici di aver accolto Tafida all'Istituto Gaslini, esaudendo il desiderio dei suoi genitori, che hanno chiesto tempo e tutta la qualità di vita migliore possibile per la loro piccola, poiché non sempre, purtroppo, è possibile guarire, ma è sempre doveroso prendersi cura e offrire spazio di accudimento ed accoglienza ad un bambino e ai suoi genitori. Questo tempo, che viene offerto a Tafida e ai suoi famigliari, è una condizione di dignità e qualità di vita, che da sempre al Gaslini viene garantito ai bambini di tutte le condizioni».
Andrea Moscatelli, direttore del Centro di Rianimazione Neonatale e Pediatrica, ha aggiunto:
«Il nostro compito è stato da subito quello di supportare le funzioni vitali di Tafida, con l'obiettivo di renderne possibile l'accudimento a casa da parte della famiglia. Le cure intensive devono sempre essere proporzionate alla condizione clinica del paziente, in un delicato equilibrio nel quale è fondamentale garantire la dignità di vita dei bambini e la condivisione dei percorsi di cura con le famiglie»
Sia nelle parole di Petralia sia in quelle di Moscatelli si rintracciano alcuni concetti cari a questo giornale: non esiste un diritto alla guarigione, ma esiste un dovere di cura; le cure devono essere proporzionate alla condizione del paziente; tra medici, pazienti e familiari si deve instaurare un'alleanza perché tutti stanno percorrendo il medesimo cammino. Sono tre punti fondamentali che riguardano il caso di Tafida ma, più in generale, qualsiasi altro: il riferimento immediato è ad Alfie Evans e Charlie Gard, ma il discorso potrebbe essere esteso anche ai casi che hanno acceso il dibattito sull'eutanasia e il suicidio assistito.
Si può curare anche quando non si può guarire, abbiamo sempre scritto. E questo vale sia nel caso (positivo) di Tafida, ma anche quando, invece, le cose si mettono male o si complicano o si cronicizzano.
Seconda osservazione, più delicata perché potrebbe prestarsi a fraintendimenti, ma altrettanto importante. La storia di Tafida ha potuto avere una svolta grazie alla grande mobilitazione della comunità musulmana residente in Inghilterra. Quando i medici inglesi hanno espresso il loro parere mortifero, sia i genitori della piccola sia i fedeli islamici a loro più prossimi si sono ribellati. La medesima "ribellione" si era verificata nei casi sopra citati, ma, questa volta, l'atteggiamento dei giudici inglesi e dei mass media in generale è stato molto diverso. Nessuno si è sognato di bollare i due genitori come dei "fanatici pro life" o dei masochisti che volevano tenere in vita a tutti i costi la figlia. La comunità musulmana inglese, poi, a differenza ad esempio con quanto accaduto nel mondo cattolico sui casi Evans e Gard, è rimasta compatta e solidale con i genitori. Su richiesta della madre, si espresse perfino il Consiglio islamico europeo che con una fatwa ricordò che, per i musulmani come la famiglia Raqeeb, l'interruzione dei trattamenti vitali è «inammissibile» oltre che un «grave peccato».
Senza togliere nulla all'atteggiamento eroico dei genitori di Tafida va freddamente rilevato come tra casi non sovrapponibili ma simili il ruolo giocato da giudici e grande informazione sia stato molto diverso.
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