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Il consenso informato non è la base di una buona medicina. Sembra un paradosso, ma la base della medicina è un'altra e veder una legge dello Stato che fraintende questo principio ci preoccupa sulla sua solidità. Se è vero che dai frutti si riconosce l'albero, è anche vero che dalle radici se ne stabilisce la solidità. E la solidità del dibattito sulle DAT, indipendentemente da quel che ciascuno ne pensa, appare fragile, minata già alle radici. Esaminiamole le radici, cioè la prima parte del testo di legge "Norme in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari", che è proprio sul consenso informato.
Certo, l'art 1 dimentica che se è vero che ogni trattamento deve essere richiesto o accettato dal paziente, esistono delle deroghe accettate da tutti a questo; e certo,l'art 7 confonde le idee dicendo le idee: "Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente e in conseguenza di ciò è esente da responsabilità civile o penale." (pensate cosa questo provocherà al di fuori dell'ambito del fine-vita cui qui evidentemente si riferisce, ma che in quanto legge dello stato poi si estende a chissà quante altre circostanze).
Ma quel che è più preoccupante è che nell'art 2 compare l'idea che "atto fondante" (sic) della relazione tra medico e paziente è il "consenso informato". Su questo bisogna riflettere, perché il medico che facesse una cosa contro o all 'insaputa del suo paziente sarebbe un pessimo medico, ma non è lì che si fonda il rapporto medico-paziente. Purtroppo la medicina attuale (non la "medicina moderna", che in quanto evoluta teorizza ben altro) teorizza un rapporto contrattualistico e aziendale tra medico e paziente e questo determina una mancanza di fiducia e un minare alla base l'arte medica e il sollievo del paziente. Pensare che il rapporto col medico sia "il consenso", benché informato, significa pensare che ci si trovi di fronte a due parti se non avverse, almeno estranee che necessitano di un contratto per agire. Invece il rapporto medico-paziente può sussistere pienamente solo nella empatia reciproca, che non significa sentimentalismo né paternalismo, ma semplicemente tre parole: curare, guarire e medicare. Curare significa "aver cura", guarire significa etimologicamente "riparare, schermare", e medicare viene da una radice che significa "misurare, considerare attentamente". Capite quanto queste tre parole implichino colloquio, contatto fisico, anche connivenza e complicità che non si ritrovano in nessuna forma contrattualistica, che al massimo fonda le basi sul moltiplicarsi di protocolli e mansionari da seguire e ossequiare; utili certo, ma non fondanti un rapporto. Il contratto serve quando non ci si fida. Se questa è la premessa, l'intera legge ci sembra traballante, in bilico, fondata sulla sabbia di una definizione di cura che non potrà soddisfare nessuno, nemmeno chi oggi l'approva pensando ai trattamenti di fine vita e non al nuovo colpo che infligge al concetto di medicina.
Non solo questa premessa infatti mina tutto ciò che segue, ma anche la buona sanità: quante volte chi si rivolge ad un ospedale si è lamentato per la spersonalizzazione, per la mancanza di colloquio e di riferimenti chiari? Pensare che tutto si risolva con una firma, con un contratto, col ricevere informazioni non è buona sanità, ma la vera malasanità, che a volte viene identificata con gli errori medici ma che in realtà è la distanza tra le mani di chi cura e di chi è curato. Pensare di lasciar intatta questa distanza ma di metterci "una pezza" con una firma è un errore mortale. Rivediamo questo errore, solo poi potremo parlare sul fine-vita in modo serio, costruttivo e etico.
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