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Non era difficile individuare nei medici obiettori il target di una rinnovata campagna ostile, per rimuovere in concreto un po’ di fastidi alla pratica abortiva e, in parallelo, per qualificare finalmente e senza infingimenti l’aborto come una scelta libera della donna, frutto della sua autodeterminazione (cf. la Nuova Bussola del 16 marzo).
L’8 marzo era stata resa pubblica la decisione del Ceds-Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa che, sul presupposto di un numero ritenuto elevato per l’Italia di medici obiettori, accusava il nostro Stato di violare i diritti delle donne che intendono abortire. Le pronunce del Ceds, che intervengono dopo articolate istruttorie, non hanno un immediato effetto vincolante, pari a quello di una sentenza di una delle due Corti europee. Se però lo Stato destinatario della decisione non vi si uniforma, ciò costituisce la premessa perché chi ha interesse si rivolga, in base al diritto che assume violato, o alla Corte di Giustizia o alla Corte dei diritti.
Sarà stato anche per questa sorta di scudo europeo che il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, nella sua veste di Commissario straordinario per la sanità, ha varato da qualche giorno un proprio decreto articolato in due punti: uno riguarda l’ammissibilità dell’obiezione a fronte di prodotti contraccettivi che funzionano pure come abortivi, l’altro riguarda l’estensione del diritto di obiezione per taluni atti previsti dalla legge 194 per realizzare una ivg. Sul primo punto il decreto viene qualificato vincolante, ed esclude apoditticamente qualsiasi ipotesi di richiamo alla coscienza; eppure la materia è controversa: se l’obiezione è un diritto, una elementare cautela raccomanda di non comprimerlo quando l’effetto abortivo di un composto chimico è eventuale e non sicuro. Se un cacciatore immagina che la lepre sia dietro la siepe, ma non esclude l’eventualità che quello che si muove sia un uomo, evita di sparare: perché il principio di precauzione non va riconosciuto permettendo di non sparare, cioè di non somministrare un prodotto letale, quando vi è l’eventualità che l’essere umano sia nella pancia, invece che nascosto da un cespuglio? È materia da lasciare alla discrezionalità di un Commissario ad acta o – essendo in discussione diritti codificati – è terreno di scelte del Parlamento? E, poiché la delega di Commissario viene al presidente Zingaretti dal governo nazionale, non è il caso che quest’ultimo lo richiami al rispetto dei propri confini?
Il secondo punto avrebbe già dovuto esigere l’intervento del governo; il decreto in questione afferma infatti che l’”esercizio dell’obiezione di coscienza” copre “l’attività degli operatori impegnati esclusivamente nel trattamento dell’interruzione volontaria della gravidanza”; esclude invece l’attività svolta nel consultorio, perché essa sarebbe coinvolta “solo nell’attività di certificazione”. La forzatura è grossa, e pare esserne consapevole la stessa Regione se si precisa che, mentre per Norlevo e spirale il decreto è vincolante, qui ci si trova di fronte a un “atto di indirizzo”. La qualifica di “atto di indirizzo” non toglie però carattere di evidente illegittimità al provvedimento. Illegittimità vuol dire contrarietà alla legge, che nella specie è la 194: quando l’art. 9 riconosce l’obiezione di coscienza al medico e al personale sanitario pone già le deroghe; anche l’obiettore – tolto l’intervento abortivo – è tenuto ad assistere la paziente quando è a rischio la sua salute, ma fra le deroghe alla copertura dell’obiezione di coscienza non vi è la certificazione. Si rileggano in proposito: il comma 3 dell’art. 9 “l’obiezione di coscienza esonera il personale sanitario (…) dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento”; e il comma 5 “l’obiezione di coscienza non può essere invocato dal personale sanitario (…) quando, data la particolarità delle circostanze, il loro personale intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo”.
Il testo è inequivocabile: non si parla solo di “attività” rispetto alle quali vale l’obiezione, ma anche di “procedure”. Alla stregua di una lettera così chiara, da quando esiste la 194, cioè da oltre 36 anni, nessuno ha mai dubitato che l’obiezione si estende anche al rilascio della certificazione alla gestante; per come è strutturata la legge (art. 5 comma 3), l’attestazione del medico in ordine all’esistenza di una gravidanza, al momento del suo inizio e alle “indicazioni” prospettate dalla donna per richiedere un aborto costituisce l’antecedente causale necessaria dell’ivg. Perfino se il medico non ravvisa “indicazioni”, il certificato da lui rilasciato rappresenta la premessa formale dell’aborto, poiché il decorso di sette giorni rende comunque possibile l’intervento abortivo (art. 5 comma 4). La certificazione non è un atto estraneo o marginale rispetto alla procedura abortiva: è il primo passaggio obbligatorio per chi intende abortire; stabilire che per tale atto non sia possibile il richiamo alla coscienza significa violare la legge. È un mistero che dalle parti del governo nazionale nessuno abbia sentito il dovere di ricordare al proprio Commissario ad acta per la sanità nel Lazio un dato così evidente.
È probabile che, mettendo a fianco la pronuncia del Ceds del Consiglio d’Europa e il decreto Zingaretti, il passaggio successivo sarà una pronuncia giudiziaria. In ossequio all’”atto di indirizzo”, qualche zelante direttore di Asl o qualche solerte dirigente di consultorio presenti nel Lazio riterrà non ammissibile l’obiezione da parte di un medico che rifiuta la certificazione; si aprirà un contenzioso: come andrà a finire? Su Questione giustizia, rivista on line di Magistratura democratica, compare una nota a margine della decisione del Ceds, a firma di Maurizio Di Masi, nella quale senza tante perifrasi si dice che il riferimento alla salute della gestante è stato in passato il “grimaldello” (si adopera proprio questo termine) per legalizzare l’aborto; ma si aggiunge che oggi la nuova frontiera è superare la c.d. “medicalizzazione” e collocare la scelta della donna nella categoria dell’autodeterminazione: se il parametro della salute costituiva approccio “condivisibile al momento dell’emanazione della legge 194 – si legge ancora nella rivista – non si può ritenere che lo sia ancora oggi, a distanza di 35 anni, quando ormai a livello europeo pare esserci un consenso generale nel riconoscere alla donna il diritto di abortire liberamente nei primi 3/5 mesi di gravidanza”. Non è tutto: poiché l’aborto viene “ricompreso tra le libertà fondamentali della donna, invece che in seno al suo diritto alla salute”, esso va inteso come una libertà personale, che per questo va esentata da restrizioni.
È l’orientamento già affermato in altre Nazioni, da organi giurisdizionali come la Corte suprema Usa, che inizia a trovare eco in Italia in talune pronunce della Consulta: la recente sentenza sul’eterologa, per esempio, collega proprio all’autodeterminazione il “diritto” di avere o non avere figli. De-sanitarizzato l’aborto, viene meno un ulteriore velo di ipocrisia sulla struttura della 194; ma viene nel contempo marginalizzata l’obiezione del medico: come osi, camice bianco, non dare seguito alla scelta libera della donna? La soluzione prospettata da Md è semplice: nell’ottica di ripensare il meccanismo dell’obiezione, al personale sanitario viene suggerita la “libertà” di optare per una specializzazione diversa da ginecologia! E se non accetti questo “consiglio che non si può rifiutare”, sarà il caso di passare a qualche provvedimento giudiziario ispirato da quella rivista …
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