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È possibile che vengano erosi dalla scienza e dalla medicina i diritti umani nell’epoca che a parole moltiplica le garanzie civili? Difficile da credere, ma è proprio quello che sta avvenendo. E non ci riferiamo solo alla perdita di valore della vita fetale, ma all’erosione sistematica dei diritti di chi è già nato. Basta leggere la stampa scientifica per vedere come i diritti alle cure di bambini già nati siano volutamente ridotti rispetto a quelli di cui godono gli adulti.
Iniziò la canadese Annie Janvier, con una serie di studi, a mostrare come a parità di prognosi la percentuale di medici pronti a fornire cure salvavita a un neonato malato sia molto inferiore a quella che rianimerebbe un adulto con prognosi simile. E uno studio pubblicato nel 2000 sul «Journal of the American Medical Association» evidenziava che molti medici europei e statunitensi, al momento di rianimare un bambino, prendono in considerazione il peso che questi può diventare per i genitori. Tanto che Michael Gross concludeva un’altra ricerca su quattro Paesi occidentali spiegando che «esiste un assenso generale al neonaticidio, a seconda del parere del genitore sull’interesse del neonato definito in modo da considerare sia il danno fisico» sia il danno a terzi («Bioethics», 2002).
E come se questo non bastasse, sull’ultimo numero di «Pediatrics» si spiega che i medici in Canada e negli Stati Uniti tengono conto dell’età della madre o del tipo di famiglia al momento di rianimare il neonato, dando la preferenza a chi è stato concepito in vitro, o a chi ha la madre avvocato. Ma quanto sia grave la situazione è dimostrato dall’ultimo numero dell’«American Journal of Bioethics», in cui Dominic Wilkinson, neonatologo e filosofo, spiega che «è giustificabile in alcune circostanze per genitori e medici decidere di lasciar morire un bambino anche se la sua vita meriterebbe di essere vissuta».
L’assunto di Wilkinson è che oggi, per decidere se rianimare un neonato si fa un conto del suo benessere futuro e del peso che una eventuale disabilità gli porterebbe; e se la bilancia si inclina in questo senso, s’interrompono le cure, dato che la vita in quel caso «non merita di essere vissuta»: visione tragica e mercantilistica della vita stessa, la quale assume un valore che può essere ritenuto inaccettabile. Wilkinson va oltre e spiega che anche se la bilancia si inclina moderatamente verso il futuro benessere — cioè anche se «la vita merita di essere vissuta» — il genitore o il medico possono scegliere di sospendere le cure.
Si tratta di una vera e propria erosione dei diritti: non una trascuratezza, ma una reale e scientifica selezione di soggetti ai quali toglierli a favore di altri, tanto che Annie Janvier ha intitolato due suoi studi Il criterio di fare il miglior interesse del paziente non viene applicato ai neonati («Pediatrics», 2004) e I neonati sono diversi dagli altri pazienti? («Theoretical Medicine and Bioethics», 2007).
Ma questa tendenza non si limita ai neonati: nel 1996 il maggior studioso mondiale di nanismo pubblicava su «Archives de Pédiatrie» un terribile articolo (J’accuse! Il nanismo ha ancora diritto di cittadinanza?), in cui parlava della discriminazione che pesa su chi è di bassa statura. E cosa dire quando si legge che le persone con disabilità mentale o addirittura con un danno fisico altamente invalidante perdono il diritto a essere chiamati «persone»?
La citata ricerca del «Journal of the American Medical Association» mostrava come un’alta percentuale di medici pensi che in caso di disabilità (fisica o mentale) la morte sia preferibile alla vita. Non bisogna allora stupirsi se in alcuni Paesi ai malati di demenza senile che non riescono più ad alimentarsi da soli si riducano le cure («Annals of Internal Medicine», agosto 2002) o si eviti di fornire l’idratazione, e se le persone con disabilità mentali sono diventate «invisibili» per il sistema sanitario («Lancet», 2008).
Ma, nel caso dei neonati, questo lasciare l’ultima parola ai genitori — spesso in preda all’angoscia e certamente non in possesso di cognizioni scientifiche — e legare la rianimazione alla disabilità futura, dà proprio l’idea di un’estensione a dopo la nascita delle leggi sull’aborto, con la differenza che qui non si provoca direttamente la morte, ma semplicemente si sospendono le cure, con analogo risultato. In un’epoca che a parole scrive i diritti dell’infanzia, ma nei fatti è pronta ad archiviarli quando questa infanzia non risponde a un modello ideale o alle attese.
In molti Paesi, significativamente in quelli a maggior benessere, esistono protocolli per non rianimare bambini nati con possibilità di sopravvivenza — in alcuni casi decisamente alta («Pediatrics» gennaio 2006) — per la possibilità residua di morire o di avere un handicap. E stupisce l’accettazione di questi protocolli da parte degli operatori: forse per un malinteso senso di solidarietà verso i parenti, o per un’avversione verso la disabilità che sconfina nell’eugenetica. Non risulta che nei Paesi dove questi protocolli sono in auge ci siano ospedali che si dissociano o operatori che facciano obiezione. Preoccupa seriamente che la rianimazione selettiva sia diventata una routine accettata come normale pratica clinica. Insomma, una banale consuetudine.
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