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L’infanzia sta subendo nei Paesi occidentali un terribile attacco psicologico e sociale, che ormai possiamo descrivere come una nuova forma di violenza: al bambino non è più permesso di comportarsi da bambino.
Il riconoscimento dei diritti dei bambini è minacciato in tante parti del mondo: stando ai dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, esistono ancora troppi Paesi dove i minori sono sfruttati dagli adulti privandoli del diritto al gioco, a un ambiente adeguato, all’istruzione, e per questo è bene celebrare la Giornata internazionale dei diritti dell’infanzia e Una striscia di Mafalda, il personaggio nato dalla matita del disegnatore argentino Quino (dal libro «Tutto Mafalda», Milano, Salani, 2009)dell’adolescenza che cade il 20 novembre. Ma l’attacco ai bambini ha anche caratteristiche che riguardano da vicino l’occidente. L’infanzia è una fascia della vita che il mondo occidentale scarta, che sente come non sua, a meno che non venga integrata nell’unico pensiero dominante oggi consentito: quello della capacità di essere funzionali a un sistema che vede gli individui non più come persone, ma come consumatori.
Mafalda, la celebre protagonista dei fumetti dell’argentino Quino, in una celebre striscia diceva sconsolata agli amichetti: «Triste scoperta, ragazzi: siamo facoltativi!» ed era un presagio del malessere dei bambini che ormai sentono di arrivare sulla scena del mondo in modo non gratuito, ma funzionale agli interessi dei grandi. Infatti, oggi il bambino semplicemente non è previsto nella società, a meno che non venga relegato nel ruolo di ciliegina sulla torta, oppure a meno che non si integri nella parte del consumatore; non si atteggi insomma, invece che a bambino, a giovane: l’unico modello di vita oggi ammesso.
Chi non sa “fare il giovane”, infatti, non viene accettato, e si assiste a una corsa dei vecchi al ringiovanimento per non sembrare tali e dei bambini all’invecchiamento — grazie a tacchi alti, rossetto, alcolici — già a dodici anni. E soprattutto il bambino non deve fare il bambino, cioè non deve essere imprevedibile e scavezzacollo, come sarebbe normale. Molto meglio fargli vivere un mondo multimediale pieno di pubblicità e inviti a spendere, che ben supera le due ore tra televisione e computer poste come limite massimo dall’American Academy of Pediatrics; trasformandolo così in un microconsumatore che ha la tv in cameretta, che non gioca ma “fa sport”, che non va a spasso ma “alle feste”. Che non è nemmeno più padrone in casa sua, dove non deve toccare niente. Le case sono infatti a misura dei grandi pressati da pubblicità invasive che, per vendere disinfettanti, fanno vedere minacce di microbi in ogni angolo. I bambini
— e i pediatri se ne rendono ben conto — non sono nemmeno più “signori” delle strade e delle piazze, dove un tempo la facevano da padroni, e addirittura hanno perso la capacità di spostamento (quante obesità infantili oggi proliferano anche per questo). Oggi si muovono solo se li accompagna un grande; neanche da scuola possono più uscire da soli per andare a casa col permesso dei genitori, tanta è la paura per i moderni mostri del traffico sfrecciante e della pedofilia. Mostri, beninteso, orribili, ma che non sarebbero prolificati se contemporaneamente non fosse fiorita l’indifferenza sociale. Un tempo il bambino era un po’ di tutti, e se qualcuno lo disturbava nel quartiere o se correva qualche pericolo, subito c’era un’altra mamma o un amico del babbo che interveniva. Oggi invece vige l’indifferenza — una caricatura della libertà — e con questa scusa si lasciano agire le persone più turpi e si lascia crescere una
città certo non a misura di bambino. E in un mondo giovanile sazio ma abbandonato, alla ricerca di omologazione, si assiste a fenomeni che la cronaca tristemente riporta: bullismo e prostituzione di minorenni.
Celebrare l’infanzia significa celebrare la sana avventatezza che sa confrontarsi con l’imprevisto. Invece ciò che è imprevisto è rigettato oggi dalla cultura occidentale. Lo testimonia un dibattito avvenuto su un’importante rivista filosofica internazionale, il «Journal of Medical Ethics», sul quale un filosofo è arrivato a porsi questa domanda: «Fare figli è solo irrazionale o anche immorale?». La spiegazione è la seguente: chiunque al mondo prima o poi soffre, dunque si deve pensare che qualunque figlio prima o poi soffre; e siccome provocare la sofferenza è male, fare figli è immorale. È un’affermazione che fa venire i brividi, ma che non rappresenta un’opinione tanto innovativa come a qualcuno potrebbe sembrare. Il dibattito sulla rivista vedeva infatti altri filosofi discettare sull’irrazionalità o sull’immoralità del fare figli, senza che nessuno che si sia spinto a suggerire che mettere al mondo dei figli è
semplicemente bello o naturale.
Non senza motivo la Chiesa ci invita a celebrare il Natale, festa che riporta all’attenzione del mondo la figura infantile, celebrando un bambino che è Dio pur essendo bambino: un segnale del rispetto dovuto a ogni età della vita, senza alcuna esclusione. In nessun momento, dal concepimento alla vecchiaia estrema, l’esistenza umana deve essere considerato uno scarto o fingere di non essere se stessa per essere accettata.
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