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«Walter stava giocando a nascondino quando vide il furgone bianco al di là della macchia di cipressi, e capì subito cos’era. Pensò: “È il furgone bianco dell’aborto. È venuto a prendere qualche bambino per un aborto post-partum. E forse”, pensò, “l’hanno chiamato i miei genitori. Per me”». È l’inizio agghiacciante del racconto The Pre-Persons (Le pre-persone), scritto nel dicembre del 1973 da… da chi? Da un fanatico pro-life? Da un reazionario neonazista?
No: da Philip K. Dick, scrittore di fantascienza (ma non solo), visionario paranoico impasticcato, il più saccheggiato, nella sua diluviale professione di scrittore spesso costretto a scrivere per sopravvivere, da Hollywood. Dick, quello di Blade Runner, Total Recall, Screamers, Minority Report, Paycheck, Next e altri ancora; capace, pur facendo della narrativa popolare, di sbattere in faccia al lettore domande radicali sul senso della vita e della morte, sul libero arbitrio, sulla natura stessa dell’uomo. Su Dio. Con l’aborto Dick fece i conti direttamente quando sua moglie decise di abortire; lui non era d’accordo, ma Dick aveva la straordinaria capacità di innamorarsi, sposandole pure, di donne problematiche e tiranniche, con le quali il dialogo non era facile. Egli stesso peraltro non era privo di contraddizioni. Una sua figlia dirà: «Era contro l’aborto, ma non si curava dei figli».
Non essendo un cattolico militante o un cardinale, Dick però può permettersi di scrivere quello che gli pare mettendo in imbarazzo gran parte dei suoi estimatori, schierati su posizioni tutt’altro che anti-abortiste, compreso quel Vittorio Curtoni che per Mondatori traduce e raccoglie negli anni Novanta tutti i racconti, pubblicati nei quattro volumi delle Presenze invisibili: nell’introduzione al quarto volume evita di far cenno alle Pre-persone, rendendo invisibili pure loro.
Dick narra di un futuro prossimo, negli Usa, in cui un individuo diventa pienamente “persona” solo quando è in grado di risolvere problemi di matematica superiore; fino a quel momento può essere abortito post-partum. Ecco il passaggio chiave: «L’errore principale dei sostenitori dell’aborto, fin dall’inizio, era nella linea arbitraria che tracciavano. Un embrione non ha diritti costituzionali, e può essere legalmente ucciso da un medico. Però il feto era stato considerato “persona giuridica”, con i suoi diritti, almeno per un certo periodo. Poi la follia pre-aborto aveva deciso che anche un feto di sette mesi non era umano e poteva essere ucciso legalmente da un medico iscritto all’albo. E un giorno, anche il bambino appena nato… È come un vegetale, non sa mettere a fuoco, non capisce niente, non parla: questi erano gli argomenti del partito abortista in tribunale; e avevano vinto, sostenendo che un bambino appena nato era solo un feto espulso accidentalmente o naturalmente dall’utero. Ma anche allora, dove bisognava tracciare la linea di demarcazione? Quando il bambino faceva il suo primo sorriso? Quando diceva la prima parola, o cercava per la prima volta di prendere un giocattolo che gli piaceva? La linea di demarcazione legale era stata spinta sempre più avanti, inesorabilmente. Fino a che si era arrivati alla definizione più selvaggia e arbitraria di tutte: la capacità di risolvere problemi matematici superiori. (…) Era un arbitrio. E neppure un arbitrio teologico, ma solo legale. La Chiesa aveva affermato da molto tempo, fin dall’inizio, che anche lo zigote, e l’embrione che ne seguiva, era una vita sacra come quella che cammina sulla terra. Si era accorta di definizioni arbitrarie come: “A questo punto l’anima entra nel corpo”, oppure, in termini moderni: “Ora è una persona, avente diritto alla piena protezione della legge come chiunque altro”».
Dick commenterà, in tono mite: «Mi spiace molto di avere offeso chi non è d’accordo con me sull’aborto volontario. Ho ricevuto anche lettere anonime colme d’odio, alcune non da singoli individui ma da organizzazioni favorevoli all’aborto volontario». Conclusione: «Non ho niente da rimproverarmi. Le mie posizioni sono quello che sono: “Hier stek’Ich; Ich kann nicht anders”, come dovrebbe aver detto Martin Lutero» (qui sto, e altro non posso fare).
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